E’ insostenibile affermare che, in presenza di un’evasione societaria l’esito dell’evasione stessa possa essere presunto distribuito direttamente in capo ai soci, nel caso in cui la società sia a ristretta base partecipativa. di avv. Dario Moresco
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E’ insostenibile affermare che, in presenza di un’evasione societaria l’esito dell’evasione stessa possa essere presunto distribuito direttamente in capo ai soci, nel caso in cui la società sia a ristretta base partecipativa. di avv. Dario Moresco
Ritengo di sottoporre a coloro che consultano questo sito un problema che non avrebbe mai neppure dovuto presentarsi all’attenzione degli operatori: alludo al c.d. automatico ribaltamento nei confronti dei soci dell’esito accertativo nei confronti di società a ristretta base partecipativa[1].
– I –
Sommario
a) Breve inquadramento (Par. II).
b) I principi generali urtano con lo schema presuntivo fatto proprio dai magistrati di cassazione (Par. III).
c) L’art. 17 lettera h della Legge 9.8.2023 n. 111 impone all’Ufficio di dimostrare l’avvenuto incasso da parte dei soci (Par. IV).
– II –
Breve inquadramento della questione
Come è noto, costituisce prassi consolidata da parte degli Uffici quella di ribaltare sui soci di società a ristretta base partecipativa i redditi che si assumono evasi dalla società; ciò in via automatica e senza una qualunque forma di istruttoria tesa a verificare l’effettiva apprensione dell’occultato da parte dei primi.
Dall’esame delle sentenze, specie di legittimità, si coglie che l’automatismo sopra riportato continua a godere di ampio credito nonostante che il Legislatore sembri averlo palesemente sconfessato.
A mio avviso, la prassi sopra riportata si presta ad essere criticata in maniera convinta
a) non solo sulla base dei principi generali in materia di prova,
b) ma, soprattutto, in relazione agli elementi di diritto positivo sopravvenuti e reperibili nel testo della Legge 9.8.2023 n. 111.
Pur conscio di far parte delle voces clamantes in deserto, ritengo opportuno affrontare il tema in esame partendo dalle critiche unanimemente condivise dalla Dottrina, per poi procedere a segnalare gli effetti conseguenti all’introduzione della norma delegante.
– III –
I principi generali urtano con lo schema presuntivo fatto proprio dai magistrati di cassazione
In prima analisi corre rilevare che l’intera ricostruzione presuntiva fonda la propria (in)coerenza sull’assunto che l’evasione della società si riverbererebbe sul socio, costituendo l’accertamento nei confronti della prima prova del fatto materiale pregiudiziale alla seconda.
– * –
1) Lo schema presuntivo nella sua forma più estrema ipotizza che l’accertamento verso la società costituisca prova nei confronti del socio insuscettibile di controprova.
Lo schema presuntivo appena richiamato, nella sua forma più estrema, tendeva a ribaltare sul socio l’effetto dell’accertamento sulla società, in termini irretrattabili, precludendo al medesimo di mettere in discussione l’accertato, seppur intervenuto nei confronti di terzi.
Oggi per fortuna questa estremizzazione sembra stia perdendo consenso. Infatti, neppure in caso di maturazione del giudicato sul medesimo, l’avviso di accertamento nei confronti della società potrebbe fare stato nei confronti del socio.
Società di capitali e socio, infatti, sono soggetti giuridicamente e economicamente diversi e distinti.
Giuridicamente errato, quindi, attribuire alla definitività di un atto nei confronti della prima effetti preclusivi nei confronti del secondo. Ha statuito il Supremo Collegio:
“In tema di accertamento dei redditi di partecipazione, l’indipendenza dei procedimenti relativi alla società di capitali ed al singolo socio comporta che quest’ultimo, ove abbia impugnato l’accertamento a lui notificato senza aver preso parte al processo instaurato dalla società, conserva la facoltà di contestare non solo la presunzione di distribuzione di maggiori utili ma anche la validità dell’accertamento, a carico della società, in ordine a ricavi non contabilizzati.[2]
Diversamente opinare, infatti, significherebbe:
a) da un lato violare uno dei principi fondamentali del processo posti a presidio del diritto di difesa[3]; vale a dire il diritto al contraddittorio ex art. 101 cpc[4]
b) dall’altro, fraintendere il meccanismo accertativo nei confronti dei soci di società a ristretta base partecipativa; afferma al riguardo la Dottrina:
“A ben vedere, infatti, se si ritiene che il socio risponda di un debito proprio (e, premettiamo, non potrebbe essere altrimenti) e quindi il maggior reddito viene qualificato da partecipazione: 1. l’accertamento del maggior reddito della società non è elemento costitutivo dell’avviso di accertamento dei soci ma si atteggia alla stregua del mero fatto storico, sicché non di pregiudizialità dipendenza in senso tecnico si tratta; 2. l’accertamento del maggior reddito della società ed il maggior reddito dei soci non può neanche dirsi essere diverso effetto del medesimo rapporto facente capo alla società secondo lo schema della pregiudizialità logica, posto che i “rapporti” tributari in siffatta ipotesi, per espressa affermazione della Suprema corte, non sono di tipo inscindibile, giusta la mancata applicazione del litisconsorzio, bensì rimangono separati e distinti e allora, nuovamente, l’accertamento del primo opera, rispetto all’accertamento del secondo, alla stregua del mero fatto storico. “[5]
Aggiungiamo poi che, negli ambiti in cui la ragion fiscale omette di influenzare le decisioni giurisprudenziali, lo stesso concetto di giudicato riflesso è oggi da considerare del tutto recessivo se non abbandonato. Citiamo al riguardo i seguenti recentissimi arresti:
a) “I limiti soggettivi di efficacia (di diritto) del giudicato sono solo quelli disciplinati dalle norme (2909 c.c.) e dunque all’infuori dei confini indicati non resta che l’efficacia di prova o di elemento di prova documentale che il giudicato può acquistare. Come tale, dunque, la sentenza inter alios acta non si sottrae al potere del giudice della libera valutazione della prova, nel contesto degli altri elementi di giudizio rinvenibili negli atti di causa.[6]
b) “Ragioni di ordine costituzionale rendono – al momento – non più sostenibile la teorica del giudicato riflesso nei confronti del terzo titolare del rapporto dipendente. Facendo, infatti, applicazione del principio della efficacia riflessa del giudicato ciò che integra il fatto costitutivo della domanda risulterebbe accertato in modo irretrattabile senza il contraddittorio con il convenuto e senza che questi possa esercitare il diritto di difesa, Per il terzo – quindi – la altrui decisione resta res inter alios acta. Esclusa la legittimità della nozione di giudicato riflesso, i limiti soggettivi di efficacia (di diritto) del giudicato restano disciplinati dalle norme positive (artt. 1306,1599, comma 3, c.c.; art. 404 c.p.c.), e, all’infuori dei confini indicati, non resta che la efficacia di prova o di elemento di prova documentale che il giudicato può acquistare, considerando perciò il giudicato non quale valore giuridico (disciplina giurisdizionale del rapporto), ma quale fatto storico risultante da un documento.”[7]
Per esservi giudicato esterno, infatti, occorre identità di parti, identità di causa petendi e identità di petitum. Afferma, il Supremo Collegio:
“Ricorre l’effetto preclusivo del giudicato esterno allorché tra il giudizio in corso e quello definito con sentenza inoppugnabile sussista una piena identità di causa petendi e di petitum, il che non può verificarsi qualora siano azionati in giudizio due crediti diversi, sebbene relativi a uno stesso rapporto che si protrae nel tempo, per la cui concreta realizzazione sono necessari due distinti titoli esecutivi. Infatti il giudicato sostanziale (art. 2909 c.c.) che, quale riflesso di quello formale (art. 324 c.p.c.), fa stato a ogni effetto tra le parti per l’accertamento di merito positivo o negativo del diritto controverso, si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti di fatto che rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico e giuridico della pronuncia, con effetto preclusivo dell’esame delle stesse circostanze in un successivo giudizio, che abbia gli identici elementi costitutivi della relativa azione e cioè i soggetti, la causa petendi e il petitum.”[8]
Ora, nella fattispecie in esame:
a) diverse sono le parti destinatarie dei provvedimenti impositivi: in un caso la società, nell’altro i soci;
b) diversi sono i petita: occultamento di ricavi realizzati per la società, occultamento di utili distribuiti per i soci;
c) diverse sono i titoli impositivi che sostengono la causa petendi delle rispettive pretese: reddito di impresa per la società, reddito da capitale per i soci.
Precluso all’Ufficio, quindi, invocare nei confronti del deducente un qualunque effetto preclusivo sull’attività assertiva del deducente, derivante dalla definitività dell’accertamento verso la società.
– * –
2) Lo schema presuntivo è, in ogni caso, illegittimo.
L’assenza di una norma giuridica che consenta ex lege di presumere, senza alcun ulteriore elemento, la distribuzione ai soci dell’evasione realizzata dalla società a ristretta base partecipativa preclude all’interprete – in assenza di una specifica indagine sulla posizione del socio – di inquadrare l’induzione de qua nell’ambito delle presunzioni rilevanti a sensi dell’art. 2729 c.c.
Afferma al riguardo autorevole dottrina:
“6.1. A livello giurisprudenziale è riconoscibile anche nel processo tributario il fenomeno di isomorfismo giudiziale volto al consolidamento di presunzioni aventi caratteristiche rispondenti a presunzioni iuris tantum, ma che — sia pur nel silenzio di una espressa norma di legge — ricollegano la conseguenza giuridica (cioè il presupposto impositivo) non al fatto reale, ma alla mera plausibilità o “ragionevolezza” dell’ipotesi di sussistenza di esso, con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. L’origine pretoria giustifica la predicazione di “presunzioni giurisprudenziali”, in quanto il giudice — sostituendosi al legislatore — riconduce a determinate circostanze la realizzazione del presupposto, finendo per dar luogo ad un’alterazione della distribuzione degli oneri probatori.
6.1.1. Nel processo tributario, tale fenomeno è particolarmente evidente in relazione alla presunzione di distribuzione in favore dei soci degli utili accertati in capo alla società di capitali a ristretta base societaria. Qui il legame che astringe i membri della compagine societaria porta ad un giudizio di “verosimiglianza” degli ulteriori fatti della distribuzione/percezione degli utili, con la conseguenza che il socio è tenuto a dimostrare non solo di non aver percepito alcuna somma, ma di aver accantonato o reinvestito tali somme nella stessa società oppure di essersi disinteressato in concreto della gestione dell’attività imprenditoriale.
Detto in altri termini, dalla ristretta base si arriva ad una doppia presunzione, la prima concernente l’erogazione degli “utili a nero” e la seconda della percezione di tali somme a tutti i soci secondo le quote di partecipazione; presunzione che può essere vinta solo a fronte di una “prova vincolata” posta a carico del socio.
Sicché, questo meccanismo presuntivo — oltre a non essere configurato da alcuna norma — si rende molto pericoloso sul piano dell’effettività della capacità contributiva, per ciò che non solo si realizza un’inversione in giudizio dell’onere della prova (spettante, di regola, all’Amministrazione finanziaria), ma non esiste neppure il presupposto per la creazione di un meccanismo presuntivo, atteso che il Fisco dispone degli strumenti per verificare sulla base di un’attività istruttoria effettiva (e non meramente a tavolino) se gli utili accertati “a nero” siano effettivamente transitati in favore di tutti o solo di alcuni soci. Ciò che sarebbe possibile tramite la verifica dei conti correnti dei soci, degli investimenti finanziari o immobiliari, del tenore di vita non corrispondente ai redditi accertati ecc.. Detto in altri termini, non esiste quel problematico accertamento della realtà che potrebbe giustificare un alleggerimento degli oneri probatori gravanti sull’Amministrazione finanziaria.
Sicché, la giustificazione poggia su un piano ideologico, anziché giuridico, in quanto la giurisprudenza opera una scelta sulla regolamentazione dell’onere della prova a fronte del mero accertamento dell’utile in capo alla società e oltretutto limitando gli spazi di difesa del singolo socio. L’operatività della presunzione, del resto, risulta ancor più allarmante sotto il profilo della coerenza dei superiori principi di sistema, là dove essa trovi conferma non solo in caso di accertamento di “ricavi a nero” in capo alla società, ma anche con riferimento al recupero derivante dal disconoscimento della deducibilità di costi, rispetto ai quali non può strutturalmente esservi un utile occulto “presuntivamente” distribuito”[9]
L’art. 7 comma 5 bis del Dlgs 31.12.1992 n. 546, infatti, grava l’Agenzia (e solo quella) dell’onere di dimostrare l’intervenuta evasione, imponendo, inoltre, alla medesima di soddisfare tale onere mediante la declinazione di una prova specifica, circostanziata e coerente.[10]
Già dal dato normativo in termini di ripartizione dell’onere della prova, l’induzione qui criticata risulta insostenibile.
In assenza di qualunque indizio ulteriore (un flusso finanziario) che ricolleghi i ricavi occultati dalla società ad uno specifico incremento di ricchezza in capo al socio, il mero assunto che quell’incasso, in termini statistici, possa ipotizzarsi,
a) costituisce un vero e proprio salto logico e
b) risulta palesemente insufficiente a rispettare i requisiti di gravità. precisione e concordanza imposti dall’art. 2729 c.c..[11]
Entrando nel merito della questione, innanzitutto, esclusa la valenza di “atto notorio” dell’assunto alla base della presunzione de qua corre rilevare che, anche volendo attribuire alla stessa natura di evento frequente nella prassi, occorrerebbe ricordare come un mero rilievo statistico giammai potrebbe rivestire valenza di presupposto dimostrativo nel momento in cui il dato generale non sia stato confrontato con la realtà concreta della fattispecie.
Lo stesso Supremo Collegio, quando non piegato a esigenze di gettito, in linea con la propria giurisprudenza civilistica[12], in materia di medie di settore, ha più volte escluso che il dato statistico possa ex sé rilevare come elemento dimostrativo:
“…posto che le medie di settore non costituiscono un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quello ignoto da provare, ma soltanto il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, risultando quindi inidonee, di per sè stesse, ad integrare gli estremi di una prova per presunzioni – ma occorre, invece, che risulti qualche elemento ulteriore….”[13]
Addirittura, le sezioni unite del Supremo Collegio, a fronte di prove statistiche – addirittura di carattere scientifico quali gli studi di settore – hanno rilevato:
“Quel che dà sostanza all’accertamento mediante l’applicazione dei parametri è il contraddittorio con il contribuente, dal quale possono emergere elementi idonei a commisurare alla concreta realtà economica dell’impresa la presunzione indotta dal rilevato scostamento del reddito dichiarato dai parametri. Pertanto la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel mero rilievo del predetto scostamento dai parametri, ma deve essere integrata (anche sotto il profilo probatorio) con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevata dal contribuente in sede di contraddittorio: è da questo più complesso quadro che emerge la gravità, precisione e concordanza attribuibile alla presunzione basata sui parametri e la giustificabilità di un onere della prova contraria (ma senza alcuna limitazione di mezzi e di contenuto a carico del contribuente)“[14]
Non è quindi un caso che la Giurisprudenza di merito più recente, valorizzando i richiamati criteri di specificità, coerenza completezza (sanciti dal comma 5 bis dell’art. 7 Dlgs 31.12.1992 n. 546), abbia escluso che il mero accertamento di un maggior reddito non dichiarato dalla società, possa sic et simpliciter implicare prova di distribuzione occulta di utili in capo ai relativi soci senza che venga perlomeno dimostrata l’esistenza di un flusso di denaro dalla prima ai secondi. Afferma, ad esempio un autorevole giudice di merito:
“In materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, l’accertamento di maggiori redditi non consente di effettuare l’accertamento pro quota nei confronti dei soci semplicemente sulla base della presunzione giurisprudenziale di distribuzione di utili extracontabili in quanto non si tratta di presunzione legale e il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.lgs n. 546/1992 ha reso diverso o più gravoso l’onere della prova della pretesa fiscale, che, per essere fondata in modo circostanziato e puntuale, deve essere supportata da elementi di prova idonei a dimostrare l’erogazione dell’utile.” [15]
La giurisprudenza di appello più recente segue anch’essa l’orientamento richiamato:
“Nell’ipotesi di società a c.d. ristretta base sociale, il presunto maggior utile accertato non consente di desumerne tout court l’avvenuta percezione da parte dei soci: invero, per effetto del novellato art. 7, comma 5-bis, del D.lgs n. 546/1992 e in assenza di una presunzione di legge ad hoc, è l’Amministrazione finanziaria a dover dimostrare in maniera puntuale che i maggior ricavi imputati alla società abbiano permesso di conseguire una provvista distribuibile ai soci nonché il flusso monetario attraverso il quale i maggiori utili societari sarebbero pervenuti ai soci. Tanto più, allorché il socio sia risultato estraneo alla gestione dell’attività societaria.”[16]
Considerando che l’indizio diviene presunzione semplice, rilevante in termini probatori, solo ed esclusivamente nel momento in cui l’inferenza del fatto ignoto dal fatto noto costituisca, in termini di probabilità logica (ricavata dal dato fattuale declinato nel processo), l’evento, più probabile che non[17], risulta evidente l’insostenibilità di una conclusione la cui tale maggiore probabilità risulta tutta da dimostrare nel caso concreto.
Tante e diverse, invero, sono le possibili destinazioni del reddito evaso dalla società, da rompere tra lo stesso e la distribuzione ai soci quel legame di normalità imprescindibile per fondare una prova presuntiva; si pensi a: pagamento di prestazioni di terzi in nero, costituzione fondi occulti a disposizione dell’amministratore, premi ai dipendenti, sottrazione da parte di chi la società direttamente gestisce.
Estranea, poi, alla prassi societaria l’induzione in base a cui, in presenza di pochi soci, tutti costoro, secondo l’id quod plerumque accidit, sono coinvolti nella gestione diretta dell’impresa;[18] il solo esame dei massimari e della quantità di provvedimenti di urgenza emessi a soddisfazione di richieste di controllo non ottemperate dalla società (ex art. 2476 c. 2 c.c.) ne dovrebbe essere prova sufficiente.
Impossibile, quindi, attribuire i requisiti di gravità, precisione e concordanza, il presupposto dimostrativo dell’inferenza erariale[19].
Prova ne sia che nelle vicende ove il bias tributario è estraneo all’orizzonte cognitivo del giudicante, pretese di questo tipo vengono rigettate senza esitazione, come risulta dalla pronuncia di un autorevolissimo giudice societario:
“Non merita accoglimento la richiesta del socio di vedersi attribuiti gli utili maturati e non corrisposti da una società qualora gli stessi utili siano stati determinati in un processo tributario attraverso ad accertamento fiscale basato su elementi indiziari che, pur utilizzabili ex lege nel plesso della giurisprudenza tributaria, prescindono dai necessari requisiti di gravità precisione e concordanza richiesti dal Codice Civile affinché le presunzioni semplici possano assurgere a strumento di convincimento del giudice”[20]
Esiste, peraltro, un altro tema che porta ad escludere la legittimità della presunzione giurisprudenziale qui avversata.
In assenza di contestazioni da parte dell’Ufficio su specifiche circostanze fattuali suscettibili in grado di far presumere l’incasso dell’evasione e, quindi, di essere suscettibili di prova contraria, attribuire valore dimostrativo al paradigma erariale, significa imporre al deducente una prova negativa generalizzata e priva di confini cui è precluso, nei fatti, poter esercitare diritto di controprova.
Invero, nell’impossibilità di fornire controprova mediante la tecnica dell’alibi – che appunto presupporrebbe l’allegazione di circostanze descrittive specifiche e determinate, l’esercizio della controprova – ergo del diritto di difesa – è precluso[21]. Afferma al riguardo la Dottrina:
“In casi di questo genere è assai improbabile che funzioni la tecnica dell’alibi poiché è non facile immaginare fatti incompatibili con i fatti indeterminati nel tempo e/o nello spazio, se non in termini di generica e non rigorosa approssimazione. D’altra parte, la sola possibilità di provare direttamente fatti negativi indeterminati sembra essere quella di utilizzare dichiarazioni del soggetto cui essi vengono attribuiti (non ho mai detto… non ho mai fatto… so che Tizio non ha mai fatto…) né tanto meno qualche tipo di prova documentale. Ne consegue però che in molti casi il fatto negativo indeterminato non può essere provato né direttamente né indirettamente”[22]
Altrettanto incomprensibile, infine, l’atteggiamento giurisprudenziale che tende a privare di valenza dimostrativa a favore del socio l’assenza di acquisizioni di beni o di incassi bancari ingiustificabili da punto di vista reddituale. In termini, processuali, considerando la sostanziale impossibilità per il socio di poter fornire una articolata prova contraria,[23]l’allegazione di elementi che dimostrino l’assenza di ingiustificate percezioni di denaro rimette l’onere dimostrativo nuovamente in capo all’Agenzia i cui mezzi istruttori a disposizione le avrebbero consentito senza fatica – tramite l’anagrafe dei conti, le banche dati catastali e automobilistiche – di cogliere eventuali forme di ricchezza ingiustificata e ingiustificabile.
La c.d. “presunzione” giurisprudenziale, ex adverso opposta, costituisce una vera e propria anomalia di sistema.
– IV –
L’art. 17 lettera h della Legge 9.8.2023 n. 111 impone all’Ufficio di dimostrare l’avvenuto incasso da parte dei soci.
L’aspetto che, però, meraviglia di più sia passato sotto silenzio, attiene all’intervenuta emanazione dell’art. 17 lettera h L. 9.8.2023 n. 111; di una norma, perfetta, completa e operativa che dovrebbe imporre a Uffici e Corti di abbandonare l’utilizzo della presunzione qui avversata.
Riteniamo, innanzitutto, doveroso, segnalare il testo della norma richiamata in rubrica:
1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1 il Governo osserva altresì i seguenti principi e criteri direttivi specifici per la revisione dell’attività di accertamento, anche con riferimento ai tributi degli enti territoriali:…h) assicurare la certezza del diritto tributario, attraverso:….la limitazione della possibilità di presumere la distribuzione ai soci del reddito accertato nei riguardi delle società di capitali a ristretta base partecipativa ai soli casi in cui è accertata, sulla base di elementi certi e precisi, l’esistenza di componenti reddituali positivi non contabilizzati o di componenti negativi inesistenti, ferma restando la medesima natura di reddito finanziario conseguito dai predetti soci.
Dal proprio testo, la norma, infatti, risulta completa, efficace e, pertanto immediatamente applicabile.
– * –
1) La norma è strutturalmente efficace e immediatamente operativa.
La predetta disposizione, pur contenuta in legge delega, deve ritenersi immediatamente applicabile a tutte le fattispecie da esaminare successivamente alla sua entrata in vigore.
La norma delegante è, ex sé, immediatamente operativa ed efficace; afferma la Corte Costituzionale:
“Sotto il profilo formale, infatti, la legge delega è il prodotto di un procedimento di legiferazione ordinaria a sè stante e in sè compiuto e, pertanto, non è legata ai decreti legislativi da un vincolo strutturale che possa indurre a collocarla, rispetto a questi ultimi, entro una medesima e unitaria fattispecie procedimentale. Sotto il profilo del contenuto, essa è un vero e proprio atto normativo, nel senso che è un atto diretto a porre, con efficacia erga omnes, norme (legislative) costitutive dell’ordinamento giuridico: norme che hanno la particolare struttura e l’determinatoefficacia proprie dei <principi> e dei <criteri direttivi>, ma che, per ciò stesso, non cessano di possedere tutte le valenze tipiche delle norme legislative (come, ad esempio, quella di poter essere utilizzate, a fini interpretativi, da qualsiasi organo o soggetto chiamato a dare applicazione alle leggi);[24]”
Come tale, la stessa si presta ad essere immediatamente applicata ricorrendone le condizioni di determinatezza e specificità.
– * –
2) La norma de qua è self executing.
La tipologia di prova richiesta dal Legislatore delegante per l’applicazione del ribaltamento – i.e. la sussistenza di elementi “certi e diretti” (esclusa, quindi, l’utilizzabilità delle presunzioni) – è individuata in maniera specifica, completa e determinata dalla norma delegante medesima; il requisito richiesto è, infatti, esattamente uno di quelli indicati dall’art. 54 comma 3 del Dpr 26.10.1972 n. 633[25]
Ora, richiamando la consolidatissima giurisprudenza europea, la norma delegante, pur avendo sempre come destinatario un ente sovraordinato, quando risulti contenere norme precise e incondizionate, risulta direttamente applicabile anche al singolo cittadino.[26]
Considerando, poi, che le leggi delega, diversamente dalle direttive europee non hanno termini di adempimento, risulta impossibile opporre persino un termine dilatorio.
– * –
3) L’intervento normativo è teso a riportare nei limiti del sistema derive decisionali prive di rispondenza con il medesimo.
La finalità, espressamente dichiarata dal Legislatore – “assicurare la certezza del diritto tributario” individua nella finalità della norma la necessità di garantire il diritto di difesa nonché espressione di principio cardine immanente al sistema comunitario e costituzionale nazionale[27]; afferma la Corte di Giustizia in un recentissimo arresto:
“Come la Corte ha già affermato a più riprese, ne discende in particolare che la normativa dell’Unione deve essere certa e la sua applicazione prevedibile per coloro che vi sono assoggettati; questo imperativo di certezza del diritto s’impone con rigore particolare quando si tratta di una normativa idonea a comportare conseguenze finanziarie, al fine di consentire agli interessati di conoscere con esattezza la portata degli obblighi da essa imposti.”[28]
L’intervento del Legislatore, quindi, individua e pone riparo, expressis verbis, ad una prassi giurisprudenziale
a) non solo distorsiva dei principi generali e foriera di incertezze, ma
b) soprattutto, accertata come lesiva di un principio cardine del sistema, riconosciuto e tutelato a livello costituzionale[29]
Di qui, l’evidente necessità di una sua immediata operatività.
L’intervento, inter alia, è in piena sintonia con quella posizione dottrinale che, dall’analisi testuale della normativa sul processo tributario, individua – in termini dimostrativi – strette assonanze con il processo penale. Il testo del comma 5 bis dell’art. 7 Dlgs 31.12.1992 n. 546, infatti, richiama il contenuto dell’art. 530 comma 2 cpp. La predetta norma, pertanto, introduce espressamente nel giudizio tributario un onere dimostrativo in capo all’Agenzia proprio (o perlomeno assimilabile a quello) del processo penale,[30] certamente più gravoso di quello proprio del processo civile.
[1] Ogniqualvolta farò riferimento, nel prosieguo, ad una società, intenderò una società a ristretta base partecipativa.
[2] Cass. Trib. 27.9.2016 n. 19013 in One Fiscale 2024; nello stesso senso: Cass. Trib. 24.7.2013 n. 17966 in One Fiscale 2024 Sul fatto che la definitività dell’accertamento in via di mero rito non precluda al socio la propria dimostrazione cfr. Cass. Trib. 22.2.2021 n. 7946 in One Fiscale 2024; Cass. Trib. 3.10.2018 n. 24034 in One Fiscale 2024 che in motivazione afferma: “non è dubbio che “in tema di accertamento dei redditi di partecipazione, l’indipendenza dei procedimenti relativi alla società di capitali ed al singolo socio comporta che quest’ultimo, ove abbia impugnato l’accertamento a lui notificato senza aver preso parte al processo instaurato dalla società, conserva la facoltà di contestare non solo la presunzione di distribuzione di maggiori utili ma anche la validità dell’accertamento a carico della società in ordine a ricavi non contabilizzati” Cass. Trib. 1.8.2017 19131 in One Fiscale 2024.
[3] Artt. 24 e 117 Cost. quest’ultimo tramite richiami all’art. 41 della Carta Fondamentale dei diritti dell’Unione Europea e all’art. 6 CEDU.
[4] Il reddito accertato in capo alla società costituisce il presupposto materiale – la premessa maggiore (il fatto noto) – necessario per arguire l’esistenza di un‘evasione in capo al socio; è evidente che ipotizzare la impossibilità per il socio di contestare tale contenuto significa sottrarre al medesimo un qualunque diritto di difesa, specie nel momento in cui la difesa di tale diritto sia stata preclusa da scelte difensive della società oramai al deducente estranea.
[5] Così: Melis Golisano: “La giurisprudenza in tema di estensione soggettiva del giudicato e società a ristretta base proprietaria, un tema ancora da meditare” in Modulo 24 Contenzioso tributario 2022 n. 1; Augello: “Accertamenti di utili extracontabili: le recenti aperture della cassazione a tutela del socio” in: L’accertamento 2022, n. 4
[6] App. Palermo 23.7.2021 n. 1249 in De Jure Giouffrè 2024
[7] Cass. 6.12.2019 n. 31969 in De Jure Giouffrè 2024
[8] Cass. 10.2.2020 n. 3032 in De Jure Giouffrè 2024
[9] Mercuri: “Onere della prova: dal contributo di Allorio alla recente riforma del processo tributario” in: Riv. Dir. Fin. E Scienza Finanze 2022, fasc. 3, par. 6.1. Sull’esistenza di strumenti alternativi per accertare la distribuzione, cfr. Contrino: “Ancora sulla presunzione di distribuzione di utili occulti nelle società di capitali “a ristretta base proprietaria”, in Rass. trib., 2013, 5, p. 1113; Beghin: “L’occulta distribuzione dei dividendi nell’ambito delle società di capitali a “ristretta base” tra automatismi argomentativi e prova per presunzioni”, in GT – Riv. giur. trib., 2004, p. 436; Perrone: “Perché non convince la presunzione di distribuzione di utili “occulti” nelle società di capitali a ristretta base proprietaria, in Riv. dir. trib., 2014, 5, p. 575. Per una critica al presupposto della presunzione, v. Paparella: “La presunzione di distribuzione degli utili nelle società di capitali a ristretta base sociale”, in Dir. e Prat. trib., 1995, II, p. 463, il quale osserva come si riveli improprio muovere dalla struttura della compagine per giungere alla prova del fatto ignoto, in quanto tale premessa (ossia gli elementi costitutivi del contratto societario) consente astrattamente di dimostrare in via presuntiva “tutto e il contrario di tutto”.
[10] Come evidenziato in Dottrina: “La ragione risiede nell’intenzione del legislatore (o, meglio, nelle premesse — giuste o sbagliate che siano — da cui prende le mosse l’iter parlamentare), di rafforzare le “guarentigie” in favore del contribuente, analogamente a quanto accade nel processo penale. Detto in altri termini, ciò che emerge dai lavori parlamentari è l’intenzione di restringere il ricorso a strumenti di carattere presuntivo, i quali finiscono per alterare l’onere della prova con attribuzione di esso in capo al contribuente” Mercuri: “Onere della prova: dal contributo di Allorio alla recente riforma del processo tributario” in: Riv. Dir. Fin. E Scienza Finanze 2022, fasc. 3, par. 7. L’autore, in quel testo, alla nota 57, richiama Senato della Repubblica – XVIII Legislatura, Fascicolo Iter, DDL S. 2636, Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari, pubblicato sul sito istituzionale il 4 settembre 2022e precisa: “Nell’ambito della discussione parlamentare, è emerso che fra i promotori degli emendamenti fosse vivo il convincimento secondo cui nel processo tributario l’onere della prova sia posto, anzitutto, in capo al contribuente. In tal senso, le dichiarazioni di voto del sen. Pillon, secondo cui «occorre che si realizzi un complessivo sistema ispirato all’inversione dell’onere della prova, passando da un processo tributario di stampo inquisitorio ad un processo in cui l’onere di dimostrare la violazione fiscale da parte del cittadino competa all’amministrazione, in ossequio alla piena realizzazione del diritto di difesa ed alle garanzie del giusto processo costituzionalmente riconosciute». Ad esse facevano seguito le osservazioni del sen. Caliendo, con le quali si contestava l’idea che la disciplina vigente realizzasse un’inversione dell’onere della prova, atteso che, già nel D.Lgs. n. 546/1992, esso era correttamente ripartito. Nelle dichiarazioni di voto, il sen. Ostellari rimarcava che l’iniziativa parlamentare fosse volta all’introduzione del «principio dell’inversione dell’onere della prova», sul quale «abbiamo discusso e sul quale ci siamo ritrovati tutti a cercare una condivisione attraverso la formulazione di un emendamento che è stato accolto, e ciò a vantaggio […] del contribuente: sarà quindi lo Stato a dover provare maggiormente — e questo deve essere anche specificato e sottolineato — la sua pretesa nei confronti del cittadino». A ciò si aggiungono le dichiarazioni del sen. Marino, il quale precisa che «tra le modifiche apportate vi è poi l’annullamento dell’atto impositivo nel caso di vizi della prova circa la relativa fondatezza che serve a superare tutte quelle inversioni probatorie via via elaborate nel tempo dalla giurisprudenza, quali eccezioni al generale onere della prova gravante in capo al fisco per porlo invece in capo al contribuente». Allo stesso modo le dichiarazioni del sen. Toffanin, il quale rimarca il «cambiamento» «sulla visione del rapporto tra Stato e contribuente», in quanto «con questa riforma finalmente si inserisce il principio dell’inversione dell’onere della prova: non più un contribuente che deve necessariamente dimostrare lui stesso la propria innocenza o non responsabilità, ma un’amministrazione che deve provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato, così come avviene in ogni nazione civile o nel nostro processo penale».”
[11] Evito di entrare nel merito del noto problema della c.d. doppia presunzione, non tanto perché condivida la tesi del Supremo Collegio per cui il presumere l’evasione dei soci dall’evasione della società non costituisca praesumptio di praesumpto, (Tale è l’assunto per cui i ricavi occultati dalla società dovrebbero ritenersi immediatamente distribuiti ai soci; persino pleonastico, attesane la conoscibilità ad una ristretta cerchia di tecnici, escludere che un siffatto assunto possa rivestire la natura di fatto notorio) quanto, piuttosto, per fatto che l’illegittimità di un siffatto ragionamento presuntivo risulta oggi sostanzialmente negata. Il tutto a partire dalla fondamentale opera: Lupi: “Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario”, Mi, 1988,
[12] Come è noto, nel processo ordinario, il nesso tra le premesse del ragionamento presuntivo è affrontato dal Supremo Collegio in termini di probabilità baconiana, quindi con specifica attenzione al dato processuale concreto. Così: Poli: “Prova e convincimento giudiziale del fatto”, To, 2023, pag. 36; Taruffo: “La prova del nesso causale” in Riv. Crit. Dir. Priv. 2006, pag. 117
[13] Cass. Trib. 5.12.2005 n. 26388 in De Jure Giuffrè 2024; nello stesso senso: Cass. sez. un. 18.12.2009 n. 26635 in One Fiscale 2024; Cass. Trib. 14.4.2003 n. 5870 in De Jure Giuffrè 2024; Cass. Trib. 29.11.2000 n. 15310 in De Jure Giuffrè 2024.\ La Dottrina condivide l’orientamento de quo. Per tutti, cfr: De Angelis: “Ragionamento presuntivo e probabilità del fatto ignoto”, in: AAVV: “Il ragionamento presuntivo”, To, 2021, pag. 419
[14] Cass. sez. un. 18.12.2009 n. 26635 in One Fiscale 2024. Il medesimo arresto aggiunge: Cass. sez. un. 18.12.2009 n. 26635 in de Jure Giuffrè 2024: “La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.”
[15] Cfr. Corte Giust. Trib. I Milano 24.8.2023 n. 2969 in One Fiscale 2024. Nello stesso senso: Corte Giust. Trib. I Reggio Emilia 24.4.2023 n. 72 in One Fiscale 2024;
[16] Corte Giust. Trib. Taranto 2.1.2024 n. 3 in One Fiscale 2024; Corte Giust. Trib. II Emilia Romagna16.1.2023 n. 99 in One Fiscale 2024; Corte Giust. Trib. II Campania 3.11.2023 n. 6119 in One Fiscale 2024
[17] Con una percentuale superiore al 50%
[18] Estremamente convincente la replica della Dottrina a Cass. trib. 9.1.2024 n. 736: La” riportata affermazione non convince del tutto, in quanto è diretta ad affermare la valenza generalizzata nei confronti di tutte le società a ristretta base partecipativa di una regola di esperienza non sempre grave e precisa (sia in termini di id quod plerumque accidit poiché la gestione di tale tipologia di società è spesso sostanzialmente esclusiva di un socio, sia con riguardo ai principi desumibili dall’ordinamento), con ciò violando anche l’art. 116 cpc. (che rimette al giudice del merito la valutazione in concreto delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c.). È, dunque, evidente che la Cassazione ha ritenuto di sollevare l’Amministrazione finanziaria dall’onere di provare in concreto i fatti posti a fondamento della sua contestazione, in applicazione dell’ordinario criterio di riparto dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.” Così: Chiarizia Periti: “Società a ristretta base societaria: la disgregazione giurisprudenziale dello schermo societario” in Corr. Trib. 2024 n. 6, pag. 548; nello stesso senso: Locatelli: “La presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili delle società di capitali a ristretta base partecipativa” in Corr. Trib. 2018 n. 38, pag. 2914
[19] Il superamento dell’onere probatorio, tramite strumenti di carattere inferenziale, implica:
a) che, in relazione all’inferenza dedotta “non esista un’altra possibilità dotata di uguale verosimiglianza perché l’accertamento possa ritenersi sufficientemente attendibile” (Marcheselli: “Accertamenti tributari e difesa del contribuente”, Mi, 2018, pag. 350)
b) che non sussista una prova contraria tale da privare di rilevanza la prova diretta.
Al riguardo, però, corre ricordare come”il grado di attendibilità della prova contraria all’accertamento deve essere calcolato in base al contesto conoscitivo e alle argomentazioni che si intende contrastare” (Lupi: “Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario”, Mi, 1988, pag. 310); infatti, “Esaminando isolatamente le argomentazioni contrarie all’accertamento extracontabile si ha talvolta la sensazione che esse abbiano basi molto fragili, ma esse non vanno giudicate in assoluto, bensì comparativamente con le argomentazioni dell’Ufficio. Orbene, quando l’accertamento extracontabile si basa su ragionamenti dotati di modesta attendibilità (o su meri riferimenti all’esperienza comune) deve potere essere contrastato con argomenti aventi grado di probabilità analogo” (Lupi: “Op. cit.” pag. 310).
[20] Trib. Milano 27.10.2020 n.6698 in www.giurisprudenzadelleimprese.it
[21] Taruffo: “La prova dei fatti giuridici”, Mi, 1992, pag. 118. L’autore fa proprio l’esempio relativo al fatto di non aver mai tenuto un certo comportamento. Nello stesso senso cfr: Cass. 1.4.2009 n. 7962 in De Jure Giuffrè 2024: “L’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia a oggetto fatti negativi, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo. Tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo.”. Nello stesso senso: Cass. 22.3.2021 n.8018 in De Jure Giuffrè 2024; Cass. lav. 27.10.2020 n. 23607 in De Jure Giuffrè 2024; Trib. Brindisi 5.4.2023 n. 586 in De Jure Giuffrè 2024
[22] Taruffo: “Op. cit.” pag. 118; il principio è ribadito dall’autore in “fatti e prove” in: AAVV: “La prova nel processo civile”, Mi, 2012, pag. 21
[23] Rinviamo alle convincenti osservazioni di Coppola: “Per il socio prova contraria impossibile” in Il Sole 24 Ore 3.6.2021: “Il punto è che nonostante la scarsa vis cogente della ristrettezza della base azionaria che, non solo non trova una definizione in ambito civilistico, ma nemmeno in quello fiscale (a meno di non dover ricorrere agli articoli 115 e 116 del Tuir in cui è regolato il regime opzionale di tassazione per trasparenza), il meccanismo è costantemente “garantito” dal convincimento che «il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci», e dal principio che spetti al socio e/o la società/sostituto d’imposta fornire la prova contraria (vincolata) che si tratti di utili accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti.
Se si riflette, è proprio ciò che viene richiesto al socio a dimostrare l’irrazionalità della regola se non mitigata dalla presunzione rafforzata che si tratti di “ricavi/proventi” in nero (e giammai di costi esistenti, indeducibili) effettivamente percepiti/conseguiti dai soci. La prova “negativa” (di non distribuzione) richiesta al socio non è opponibile, sul piano della tecnica contabile, perché giammai una società che “occulti” utili/proventi imponibili potrebbe accantonarli in una riserva del patrimonio netto (in bilancio) o “investirli” in cespiti patrimoniali senza impiegare, in via palese (e non occulta), una corrispondente contropartita di numerario (cassa/banca/crediti) in quella stessa annualità di controllo/accertamento nella quale si determina per via dell’accertamento “l’imputazione” di quel maggiore imponibile (occulto), in via riflessa, sul socio. Se la società partecipata avesse maturato utili/ricavi (extracontabili) “accantonandoli in una posta del patrimonio netto” (trattenendoli, quindi) senza tassarli, avrebbe generato riserve di utili in sospensione d’imposta (palesi) che, al pari delle altre riserve di utili (sospesi) sarebbero (ordinariamente) tassabili in capo alla partecipata al termine del periodo di sospensione e di poi, tassabili in capo ai soci, all’atto dell’effettiva distribuzione, secondo le diverse quote di imponibilità (complementari) a quelle di esenzione. Ma se ciò accade, l’ufficio non dovrebbe fare altro che recuperare l’Ires non dichiarata dalla società sul maggior utile “accantonato” nella riserva di utile (palese, non tassata), ma giammai “inferire” che quell’ utile extracontabile è stato “trasferito”, visto che è l’ufficio stesso a trovarselo “accantonato” a riserva.
In definitiva, il socio per superare la presunzione dell’avvenuta “distribuzione” di un utile extracontabile (accantonato a riserva o investito in beni patrimoniali) dovrebbe farsi carico di una prova (contraria) negativa (impossibile) per “sopperire” alla violazione/errore metodologico dell’ufficio che, nonostante l’accantonamento in bilancio di riserve di utili (non tassate) o di costi societari sostenuti, ma recuperati a tassazione dovesse, ciò nonostante, ricevere l’accertamento a fini personali, Irpef, della (presunta) avvenuta distribuzione di quel “maggior reddito d’impresa” tassato a fini Ires.
Deve farsi un’altra considerazione di sistema che, a ben vedere, è il fulcro delle principali incertezze che si leggono nelle tante e dissonanti interpretazioni di merito e legittimità. Il parametro di riferimento per stabilire l’ambito soggettivo e oggettivo della presunzione è il regime di tassazione per esenzione (e non per imputazione) che, dal 2003 è quello che va applicato, in luogo del meccanismo del credito d’imposta, per assoggettare ad Ires il reddito d’impresa prodotto dalla società di capitali (ed enti commerciali) che non hanno optato per il regime “di trasparenza” di cui agli articoli 115 e 116 del Tuir.
Per tassare gli “utili da partecipazione” in società ed enti soggetti a Ires ex articolo 44, comma 1, lettera e), del Tuir vanno, applicati e rispettati i criteri di imponibilità per esenzione (limitata) in capo ai soci, secondo le diverse percentuali stabilite in funzione della natura del socio partecipante, così come stabilite dall’articoli 47 (per le persone fisiche) e 89 (per imprese e società) del Tuir (al 95% – con imponibilità del 5% – se il socio è una società di capitali o ente commerciale soggetto ad Ires; al 41,86% – con imponibilità del 58,14% dal 01/01/2008) se si tratta di socio di società di persone o persona fisica che detiene la partecipazione nell’esercizio di un’impresa; con ritenuta del 26% se a percepire gli utili (dopo il 1° gennaio 2018) è una persona fisica che detiene la partecipazione, fuori dall’esercizio di una impresa). La precisazione è dovuta e necessaria per il fatto che, nell’applicazione della presunzione, gli Uffici a volte tassano il maggior reddito accertato in capo alla società a Ires (24%) e poi imputano siffatto maggior reddito – al lordo dell’ imposta accertata (e nemmeno al netto) – “pro quota” su tutti i soci della società “a ristretta base azionaria” come se si trattasse di un reddito d’impresa tassabile per trasparenza ex articolo 5 del Tuir (o 115/116) “dimenticando” di aver tassato a fini Ires (24%), quel medesimo maggior reddito, sulla partecipata.
L’errore è molto grave, e genera effetti distorsivi. Nel sistema di tassazione dei dividendi ed altre poste assimilate (utili da partecipazione) distribuiti da società di capitali non c’è spazio per una “tassazione” aggravata e “per intero” allorquando si applica la regola (non scritta) della presunzione che il maggior reddito (occulto) della partecipata sia stato conseguito/spartito dai soci, visto che l’accertamento del socio “dipende” dall’accertamento sulla partecipata che è già tassata a fini Ires sul maggior reddito accertato all’Ufficio; né c’è spazio per qualificare la tassazione degli utili (occulti) in capo al socio di società a ristretta base azionaria secondo le percentuali di imponibilità applicabili, ratione temporis, una tassazione “ridotta”. Si tratta solo delle regole stabilite, nel nostro ordinamento per evitare la doppia imposizione economica sul (medesimo) reddito d’impresa che va tassato a fini Ires in capo alla partecipata all’atto della produzione, e in capo ai soci a fini Irpef all’atto della distribuzione che vanno rispettate e applicate dalle parti, privata, pubblica e, in caso di dubbio, dai Giudici.”
[24] Così, in motivazione Corte Cost. 4.5.1990 n. 224 in De Jure Giuffrè 2024
[25] Trascriviamo per comodità di lettura il citato III C dell’art. 54: “L’ufficio può tuttavia procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntiva, da verbali, questionari e fatture di cui ai numeri 2), 3) e 4) del secondo comma dell’articolo 51, dagli elenchi allegati alle dichiarazioni di altri contribuenti o da verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, nonché da altri atti e documenti in suo possesso”
[26] Tesauro: “Diritto comunitario”, Pd 2005, pag. 171. In Giurisprudenza: Cass. 17.6.2011 n. 13329 in De Jure Giuffrè 2024: “La restituzione dell’imposta indebitamente versata non può avere luogo con le modalità del risarcimento del danno per omesso recepimento di una direttiva comunitaria, qualora tale direttiva sia direttamente ed immediatamente applicabile nell’ordinamento nazionale, avendo un contenuto positivo, chiaro, preciso e dettagliato (cosiddetta “direttiva self executing”). In siffatta ipotesi, infatti, non si richiede necessariamente una attività dello Stato di adeguamento dell’ordinamento interno alla normativa comunitaria. Il giudice nazionale e la pubblica amministrazione sono obbligati a non applicare la normativa interna contrastante con una direttiva che non richieda alcuna attività di adeguamento del diritto interno a quello comunitario perché del tutto incondizionata e precisa (fattispecie relativa al pagamento non dovuto dell’imposta di registro per un atto di fusione).”
[27] Attraverso il richiamo di cui all’art. 117 Cost alla Carta europea dei diritti dell’Uomo e alla Carta fondamentale dei diritti dell’unione europea
[28] Corte Giust. UE 11.1.2024 n. 537 in One Fiscale 2024 che al par. 46
[29] Non solo ex art. 24 Cost. (ciò senza considerare che la natura penale lato sensu delle sanzioni tributarie e la loro applicazione automatica in presenza di accertamenti dovrebbe implicare il rispetto dell’art. 24 Cost. anche nell’ambito degli accertamenti tributari), ma anche e soprattutto alla luce dei rinvii alle convenzioni europee di cui all’art. 117 Cost.
[30] Così espressamente: Garganese Falcone: “Presunzione di distribuzione degli utili di società di capitali a ristretta base e nuovo riparto dell’onere della prova” in Corr. Trib. 2024, n. 1, pag.82; Mercuri: “Onere della prova: dal contributo di Allorio alla recente riforma del processo tributario” in: Riv. Dir. Fin. E Scienza Finanze 2022, fasc. 3, par. 7. L’autore, alla nota 58, precisa: “Si rammenta che nell’iter parlamentare (cfr. Fascicolo Iter, cit.), il co. 5-bis è stato frutto della riunione di vari emendamenti parlamentari avanzati rispetto all’originaria formulazione del disegno di legge governativo (là dove mancava una norma sull’onere della prova). E difatti, nella prima formulazione dell’emendamento 2.0.12, si voleva modificare l’art. 7 dello Statuto recante una formulazione più conforme alla rilevanza del fatto nell’ambito della fattispecie impositiva, stabilendo che «4-bis. L’atto impositivo deve essere annullato se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Il contribuente che eccepisca l’insussistenza di tali presupposti ha l’onere di provare i fatti su cui l’eccezione si fonda, anche mediante dichiarazioni scritte rilasciate da terzi con dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà sottoscritta ai sensi dell’art. 47 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. 4-ter. In deroga a quanto previsto dal comma 4-bis, il contribuente che vuol far valere il proprio diritto al rimborso deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. 4-quater. È fatto divieto di utilizzo di doppie presunzioni semplici». Con la seconda versione dell’emendamento n. 2.0.12 (testo 2), la novella è stata inserita nell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 ed è stata depurata dai riferimenti ai “fatti” e dal divieto di doppie presunzioni assumendo una connotazione più incentrata sugli aspetti sanzionatori (utilizzando il termine “violazione” in luogo di “fatti”) e ricalcando la formulazione dell’art. 530, co. 2 c.p.p. E difatti, la seconda versione dell’emendamento era concepita come segue: «6. Il giudice annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni». Con la terza versione dell’emendamento n. 2.0.12 (testo 3), si aggiungevano la precisazione secondo cui «l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato», il richiamo al principio dispositivo («il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio»), nonché la specificazione dell’onere della prova nei giudizi di rimborso (stabilendo che «spetta comunque al ricorrente dare prova della spettanza del rimborso richiesto»). Con la quarta versione dell’emendamento n. 2.0.12 (testo 4), si è dato luogo ad un’ulteriore limatura del testo, in particolare sotto il profilo dei giudizi di rimborso rispetto ai quali si è sostituito “prova della spettanza del rimborso” con “fornire le ragioni della richiesta di rimborso” ed escludendo l’operatività di tale regola “quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”. Non si deve dimenticare che, nella “fase genetica” della norma, erano stati proposti emendamenti rivolti alla riduzione degli ambiti di operatività delle presunzioni (quale ad es. l’emendamento n. 2.25 secondo cui «1. Nei procedimenti in materia di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere della prova è posto a carico dell’amministrazione finanziaria, senza la facoltà di avvalersi di presunzioni semplici, ovvero di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze della dichiarazione, se presentata, e dalle eventuali scritture contabili del contribuente, in deroga a quanto previsto dall’articolo 41, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600»)”
27 ago 2024
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