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La Grundnorm dello Statuto tra illusione e realtà. di Avv. Michele Trovesi

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La Grundnorm dello Statuto tra illusione e realtà. di Avv. Michele Trovesi

October 21, 2024 wp_1990733 0 Comments

Riprendo il mio ragionamento, più o meno dove l’ho lasciato un anno fa.
Qualche riflessione che si spinge appena più avanti, affrontando temi che
incutono timore per la loro complessità e che quasi certamente sono fuori
dalla mia portata.
Ci provo con grande timidezza, confidando nella benevolenza di tutti i
componenti della Camera Tributaria e di chiunque altro dovesse
casualmente leggere queste poche righe.
Il filo conduttore: la recente riforma tributaria e le situazioni soggettive.
E quindi, dentro la riforma tributaria, lo Statuto dei diritti del contribuente e
un nuovo orizzonte nelle relazioni tra Stato e individuo, tra potere e libertà,
tra interesse erariale e salvaguardia dei diritti patrimoniali.
La tutela della proprietà come asse cartesiano nell’attuazione del rapporto di
imposta, prima, più alto dell’interesse fiscale. Forse, addirittura, l’idea
dell’io che sostituisce l’idea del collettivo.
Una vera e propria fase di rottura, una rivoluzione secondo l’accezione data
a questo termine da uno studioso che cito con tutto il pudore del mondo,
Norberto Bobbio (1). O almeno così dovrebbe essere.
In realtà restano molti dubbi e di qui i miei pensieri, da cittadino prima che
da Avvocato.
Partirei, sempre imbattendosi in Autori di fronte ai quali ci si inchina (2),
dalla Grundnorm dell’originario Statuto, quello del 2000. Il primo tentativo
risale a quel tempo e con la mente occorre tornare lì (3).
La speranza di tutti è che con il nuovo millennio si apra un’epoca di
cambiamento, con il contribuente considerato come cardine del rapporto di
imposta. Lui al centro, gli apparati attorno; lui da proteggere e le norme da
applicare sapendo che la sfera patrimoniale di un cittadino, quando serve, va
lesa; ma che lo si deve fare con cautela, senza mai distogliere lo sguardo
dalla vera capacità contributiva, quella che esiste nel mondo empirico e non
quella che vive nel mondo delle leggi.
Ancora, il principio della sua onestà sino a prova a contraria, del confronto
al posto del conflitto; e di conseguenza, la motivazione del provvedimento
come segno di una relazione paritetica e non più autoritativa.
Lo Stato che dialoga e che non impone, se non quando è indispensabile. Il
cittadino che lascia posto all’uomo e la norma che non è più espressione di
un atto unilaterale di volizione ma strumento di composizione di interessi.

In breve, la fiscalità come momento di partecipazione e il costituzionalismo
che, nelle intenzioni, è destinato a raggiungere la sua vetta più alta proprio
grazie alla legge 212/2000.
Le cose, lo sappiamo, sono andate diversamente.
La tensione verso il cambiamento riposta dentro la nuova Carta dei diritti
del contribuente è rimasta lettera morta, con uno svilimento lacerante e
doloroso di molte delle sue disposizioni; lo Statuto reso progressivamente
un manifesto di carattere estetico e tenuto via via più lontano dalle
dinamiche materiali dei rapporti tributari. Enunciazioni astratte incapaci di
penetrare dentro le singole fattispecie concrete e una superiorità assiologica
confinata nel limbo della teoria.
È probabile che ognuno di noi ne abbia diretta esperienza: con il trascorrere
degli anni, l’azione impositiva è divenuta impermeabile a quei paradigmi ri-
fondativi e la situazione è rimasta identica a prima. Il contraddittorio, le
argomentazioni del provvedimento, la tutela dell’affidamento, la buona
fede: ornamenti ogni giorno più inutili e l’idea che piano piano si è fatta
strada è che si dovesse persino avere pudore nel citarli.
Non i canoni di base di un nuovo mondo ma noiose litanie di difensori
spesso disarmati nel merito e perciò pronti a ricorrere a qualsiasi
stratagemma pur di confondere e di guadagnare tempo.
E personalmente non credo si possa replicare che si tratta di una
ricostruzione cupa e che in realtà l’amministrazione finanziaria si è abituata
a dialogare più di quanto non succedesse un tempo. Se come organizzazione
lo ha fatto, al di là di illuminanti esperienze con vari funzionari, è perché si
è compreso che questo risulta il modo più razionale per incassare denari
rapidamente.
Per essere diretti: la mia idea è che, se la dialettica tra le parti ha trovato più
spazio nell’ultimo quarto di secolo, questo è essenzialmente avvenuto in
un’ottica di efficienza e non di riconoscimento della centralità
dell’individuo in quanto tale. Si è talvolta modificato l’approccio verso il
contribuente ma non la cornice di principi, spingendo al confronto più per
necessità che per intima convinzione.
In altri termini non vi è stato nel sistema il passaggio che, con il linguaggio
anglosassone, porta da una condizione di freedom a una condizione di
liberty: un conto è il quadro di regole formali e altro conto è interiorizzare
l’idea di uno sviluppo della persona (4). I due vocaboli segnano il diverso
modo di un ordinamento di porsi in una prospettiva culturale, valorizzando
per l’appunto l’una o l’altra Grundnorm: a base del rapporto di imposta o
c’è lo Stato o c’è l’individuo e, questa volta con il gergo dell’uomo
qualunque, si deve decidere chi viene prima.

Proprio a questo riguardo la legge del 212/2000 ha mostrato la sua endemica
debolezza, coprendo la relazione impositiva con la patina di un nuovo ethos
ma mantenendo, nel diritto tributario vivente, l’architrave sull’Erario.
Nulla di originale, lo hanno già scritto in tanti; per me è solo un piccolo
punto fermo che aiuta ad affrontare la seconda parte del discorso (5).
Il timore è che accada lo stesso di fronte al nuovo tentativo di riportare lo
Statuto al centro della funzione impositiva. Il disegno del Legislatore di
oggi è nobile ma se getto lo sguardo in avanti non posso non prefigurami
norme che verranno svuotate del loro significato più profondo e che
finiranno con l’essere solo suoni lontani, forme lessicali chiuse su loro
stesse. Esattamente come la prima volta.
La speranza non deve mai abbandonare i disegni di cambiamento; il
nichilismo distruttivo va tenuto lontano, cogliendo quel c’è di buono in ogni
progetto e pensando che in fondo, anche se l’onda si ritira, qualcosa sulla
battigia resta sempre.
Eppure, la preoccupazione che molte delle regole di nuovo conio evaporino
nel nulla è forte.
Penso, tra gli altri, all’art 10 ter ove è codificato il principio di
proporzionalità che è di per sé dirompente e che da solo sarebbe in grado di
cambiare il volto del nostro ordinamento tributario sul piano sostanziale,
procedimentale e processuale. Si è probabilmente facili profeti nel dire che
di quel principio si sentirà parlare molto poco e che gli atti annullati perché
lo violano si conteranno sulle dita di una mano.
Ci sarebbero molti esempi ma sorvolo per non scivolare in un’esposizione
compilativa. Il rischio – mi concedo una piccola metafora – è che un prato
rigoglioso inaridisca di nuovo perché non irrigato se non con rare gocce
d’acqua. Poche pronunce qua e là assorbite dall’indifferenza generale,
tenendo salda la matrice pubblicistica-autoritativa dell’obbligazione fiscale.
Occorre una torsione decisa verso gli scenari futuri. Qualche pagina ancora
di piccoli pensieri, ri-concependo il diritto tributario come parte di un
sistema.
Il mio, lo dicevo prima, non è un inno al pessimismo.
Non ritengo che ci sia un destino segnato o una volontà trascendente che ci
inchioda al passato; e dunque, quasi ogni giorno, rifletto nel mio piccolo su
quel che manca perché la Carta dei diritti dei contribuenti non resti
un’arcàdia lontana dalla vita terrena.
Due sono gli elementi che, nel loro intrecciarsi, mi pare leghino al giogo
dell’imposizione come forma di potere e a quello del contribuente non
ancora depositario, non fino in fondo, di diritti soggettivi pieni; e sono questi due stessi elementi che, sempre accavallandosi, diluiscono sino a renderle innocue le norme protese verso un nuovo assetto di valori.
Partiamo dal primo.
La legislazione tributaria di oggi è composta da un duplice strato.
Al livello inferiore si trova il magma delle norme estemporanee, scritte e
riscritte all’infinito, prima aggiunte e poi soppresse inseguendo
caoticamente l’immediatezza dei fatti.
Al di sopra vi è l’insieme dei principi e delle clausole generali; vale a dire,
l’insieme delle regole che promanano direttamente dalla Costituzione.
E sulla funzione della normazione di principio all’interno di un sistema sono
stati scritti meravigliosi saggi e articoli, dando allo studio del diritto un
respiro del quale non si dovrebbe mai fare a meno (6).
L’idea di fondo è quasi unanimemente condivisa: principi e clausole
generali sono indispensabili per consentire all’assetto giuridico di interagire
con il contesto circostante, tracciando l’orizzonte etico di un ordinamento.
Riducendo la questione ai minimi termini, la società non è oggi concepibile
come un blocco omogeneo e più delle norme servono delle pre-norme, dei
frammenti di norme che permettono una continua comunicazione tra i vari
livelli dell’impianto giuridico.
I principi come vasi comunicanti, facendo sì che il diritto divenga portatore
di istanze sociali.
C’è però un punto debole, un nervo scoperto.
La genericità del loro linguaggio comporta margini di integrazione
valutativa più ampi di quelli che si ritrovano nelle norme ordinarie.
I confini del precetto sono tenui e la pluralità di culture di una
organizzazione sociale può essere di ostacolo quando si tratta di stabilirne il
significato.
La norma aperta non di rado diviene il luogo della contrapposizione fra
diverse opinioni; e così il sistema fatica a evolvere, i conflitti si sedimentano
e i cambiamenti rallentano drasticamente.
Aggiungo il secondo elemento di questa parte finale dell’analisi che mi
riporta accanto allo Statuto dei diritti del contribuente, arrivando subito
dopo alla conclusione.
Se dalla indeterminatezza dei principi si risale alla nostra comunità, ciò che
si scopre è che gesti, pensieri e azioni degli individui si ispirano a diverse
forme di ordine.

Riaffiora il dubbio di addentrarmi in concetti più grandi di me; mi aggrappo
a qualche lettura e cerco di trovare la sintesi di un ragionamento più che mai
vasto. So bene di semplificare enormemente ma l’auspicio è di individuare
almeno il cuore del problema.
Le varie anime della nostra società formano un coro disarmonico e quello
che manca è l’unicità del pensiero. A prevalere è la diversità degli stigmi
culturali e la sensazione è di un Paese sottoposto a transizioni continue, a
dialettiche incompiute che non sfociano in un Io condiviso. Lacerazioni non
ricomposte negli anni e fratture che rimangono profonde nel tessuto dei
valori collettivi.
È per questo che la Grundnorm della Statuto non si trova, viene liquefatta, si
disperde in letture che ne annichiliscono il senso, rimanendo ancorati alla
conformazione autoritativa delle relazioni fiscali. La scomposizione della
comunità porta con sé lo spegnimento dei principi giuridici, profittando
della loro vaghezza semantica.
Molti tra giudici e interpreti li tengono lontani dal diritto vivente e li
ritengono una componente superflua; altri, pochi, ne esaltano la funzione e li
iniettano in tutte le norme di dettaglio.
Il complesso dei valori coesiste con visioni opposte della realtà da parte di
chi approva, applica e interpreta le leggi; aleggia una polarità non risolta tra
potere e libertà, tra interessi statali e interessi della persona.
Una linea di separazione socio-culturale che attraversa l’intero corpo del
Paese e che fa in modo che il sistema si avviti su sé stesso, senza procedere
in avanti.
E allora va messo ordine nel dedalo delle identità ritrovando un carattere
dominante; una tavola di principi trasversali non più sul piano descrittivo
ma in termini di sub-strato culturale, formando il vivere insieme all’interno
di una cornice non più dissonante.
Un rovesciamento del paradigma prevalente che, tornando alle pagine
inziali, si incardini sul singolo soggetto e ne riconosca la funzione
nevralgica di fronte alle sfide del futuro.
In poche parole, va affermata una nuova visione del patto costituzionale che
riparta dall’individuo e che costruisca ogni legatura intorno a lui (7).
A quel punto lo Statuto non sarà più una chimera; servirà veramente per
disegnare un nuovo impianto giuridico, lasciandosi alle spalle le esperienze
dello scorso decennio e avviando una metamorfosi non apparente ma
effettiva in chiave ontologica.
Il percorso è dunque da invertire: dal ripensarsi come comunità allo Statuto
dei diritti del contribuente come asse portante dei rapporti tributari.

Immaginare che accada il contrario temo non sia altro che un’illusione come
quelle del passato.
Note
1) Norberto Bobbio, Mutamento politico e rivoluzione, Donzelli editore, ed. 2021.
2) Hans Kelsen, Lineamenti di teoria pura del diritto, Einaudi, ed. 2000.
3) Il richiamo alla Grundnorm nello Statuto si trova in Francesco Moschetti, Il principio democratico sotteso allo Statuto dei diritti del contribuente e la sua forza espansiva, in Riv. dir. trib., n.7-8, 2011.
4) La distinzione è di Giovanna Tieghi, Fiscalità e diritti nello Stato costituzionale
contemporaneo
, Jovene Editore, 2012
5) Illuminante A. Giovannini, Note controvento su interesse fiscale e giustizia
dell’imposizione come diritto fondamentale (muovendo dall’intelligenza artificiale)
, in
Riv. dir. trib., n. 3, 2023; anche A. Giovannini, Evasione, equità e consenso fra
Antigone e Creonte
, in rass. Trib., n. 3, 2023..
6) Tra gli altri, Luca Nivarra, Dentro e fuori. Lo strano caso delle clausole e dei principi generali, in Europa e diritto privato, n. 1, 2022, Luca Nivarra, Clausole generali e principi generali del diritto nel pensiero di Luigi Mengoni, in Europa e diritto privato, n. 2, 2007.
7) L’ispirazione viene da Pietro Boria, Il potere tributario, Il Mulino, 2021.

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