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La presunzione di distribuzione degli utili extra-contabili ai soci di società a ristretta base partecipativa – Analisi critica di avv. Matteo Montaruli

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La presunzione di distribuzione degli utili extra-contabili ai soci di società a ristretta base partecipativa – Analisi critica di avv. Matteo Montaruli

Fra i vari temi di attualità “disponibili” ho scelto di affrontare questo perché, nello svolgimento della professione ho riscontrato con sempre maggiore frequenza come l’Agenzia delle Entrate utilizzi questo ragionamento di tipo presuntivo come un vero e proprio modello accertativo, forte di una giurisprudenza di legittimità (e di merito) granitica, nel cui solco l’Ufficio dà per presunta la distribuzione degli utili extra-contabili in capo ai soci di società di capitali a ristretta base e, come molti di Voi ben sapranno, non soltanto questi utili.

Il taglio che intendo dare a questo breve articolo sarà quindi pratico, in quanto si fonda su esperienze professionali interpretate e commentate alla luce di articoli ed approfondimenti scritti da colleghi e studiosi della materia, che proverò a selezionare dal copioso materiale disponibile in rete tanto su piattaforme dedicate, quanto da fonti aperte.

Partiamo brevemente dalla “regola”: i dividendi percepiti da soci di società di capitali appartengono all’area dei redditi di capitale di cui agli articoli 44 e 45 del T.U.I.R..

Tale normativa non prevede una definizione specifica di redditi di capitale ma un elenco tassativo di tipologie reddituali.

Nel caso della tassazione dei dividendi il criterio fondamentale è quello della provenienza e facciamo riferimento ai proventi derivanti da capitali impiegati in attività finanziarie di partecipazione, ovvero i dividendi di partecipazione: si tratta dei redditi erogati dalle S.r.l. e, in generale, dalle società di capitali ai soci.

La materia della tassazione dei dividendi è stata riformata dalla Legge di Bilancio del 2018, che ha equiparato la tassazione sulle persone fisiche non in regime di impresa che detengono partecipazioni qualificate o non qualificate con tassazione ad aliquota fissa 26%.

Ciò premesso, è noto agli addetti ai lavori come da lungo tempo l’Amministrazione Finanziaria agisca direttamente nei confronti dei soci di società di capitali a ristretta base partecipativa utilizzando un’argomentazione presuntiva avallata da costante giurisprudenza di legittimità e di merito, il cui nucleo essenziale, considerato in possesso dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, è costituito dal fatto che in sede di accertamento delle imposte dirette, gli utili extra-contabili accertati in capo ad una società di capitali a ristretta base partecipativa, cioè con pochi soci, magari familiari (marito e moglie, fratelli), possano essere attribuiti per trasparenza ed in proporzione alle quote possedute ai soci, fatta salva la prova contraria.

Semplificando, abbiamo:

–           la disposizione di cui all’art. 5, comma 1 del T.U.I.R. (D.P.R. 917/1986), che disciplina la tassazione dei redditi prodotti dalle società di persone residenti nel territorio dello Stato; si tratta di una presunzione legale di distribuzione pro quota ai soci degli utili prodotti in forma associata. Quando l’Ufficio accerta una società di persone, emette un atto impositivo unitario nei confronti della società, con cui accerta il maggior reddito, l’IRAP e l’IVA, e lo notifica a tutti i soci. A seguire, l’Ufficio competente per ciascun socio emette un avviso di accertamento personale motivato per relationem rispetto all’avviso di accertamento unitario, con cui l’Amministrazione Finanziaria procede al recupero delle imposte dirette, delle addizionali e dei contributi previdenziali dovuti da ciascun socio come diretta conseguenza dell’attribuzione pro quota dei maggiori utili accertati in capo alla società. A livello processuale abbiamo una fattispecie di litisconsorzio necessario poiché la questione tributaria oggetto del contendere è unitaria;

–           le disposizioni di cui agli artt. 115 (Opzione per la trasparenza fiscale), 116 (Opzione per la trasparenza fiscale delle società a ristretta base proprietaria) e 117 (Soggetti ammessi alla tassazione di gruppo di imprese controllate residenti) del T.U.I.R.. Il comma 1 dell’art. 116 così recita: “L’opzione di cui all’articolo 115 può essere esercitata con le stesse modalità ed alle stesse condizioni, ad esclusione di quelle indicate nel comma 1 del medesimo articolo 115, dalle società a responsabilità limitata il cui volume di ricavi non supera le soglie previste per l’applicazione degli studi di settore e con una compagine sociale composta esclusivamente da persone fisiche in numero non superiore a 10 o a 20 nel caso di società cooperativa”.

Fra la tassazione per trasparenza ex lege di cui all’art. 5 del T.U.I.R. e quella a scelta del contribuente di cui agli artt. 115, 116 e 117 del T.U.I.R. esiste una sorta di tassazione per trasparenza che, essendo la diretta conseguenza dell’azione accertatrice del Fisco possiamo chiamare per comodità espositiva “coatta”: non opera ex lege e non è frutto di un’opzione del contribuente, che la subisce in fase di accertamento, ancorché sia ammessa la prova contraria.

In sintesi, all’Amministrazione Finanziaria basta dimostrare l’esistenza di una ristretta compagine societaria e di utili occulti, o extra-contabili, per poter legittimamente presumere che gli stessi siano stati ripartiti pro quota ai soci, fatta salva la prova contraria che, essendo negativa, in quanto attiene alla dimostrazione di non aver ricevuto alcuna remunerazione occulta, è diabolica, a tacer d’altro.

Il fondamento di tale presunzione è evidente, in quanto di regola il ristretto numero dei soci, magari prossimi congiunti, implica una complicità tra di essi ma, soprattutto, poiché spesso questi ultimi prestano la propria attività lavorativa all’interno della società, è legittimo ipotizzare che vi sia la piena conoscenza dell’effettivo andamento della gestione societaria e che nel caso in cui parte dei ricavi della società siano occultati al fisco e, quindi, sottratti a tassazione, il frutto dell’evasione sia ripartito pro quota tra gli stessi.

Infatti, è del tutto lecito supporre che dei corrispettivi incassati in nero siano incamerati direttamente dai soci e, parimenti, è la stessa quotidiana esperienza professionale a suggerirci che, nel caso di utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, a fronte del pagamento tracciabile mediante bonifico bancario effettuato dalla società fruitrice di turno, ci sia la restituzione per contanti da parte della cartiera, che provvede a ciò direttamente nelle mani dell’amministratore/socio, sia esso di diritto oppure occulto.

Ora, se gli aspetti che meriterebbero di essere approfonditi sono molteplici, fra questi ve n’è uno in particolare che ha sollecitato la mia attenzione in chiave difensiva al fine di individuare potenziali brecce in una prassi amministrativa che, a mio parere, appiattitasi nel tempo, ha finito per travalicare i limiti desumibili da un sereno esame della corposa giurisprudenza di legittimità avente ad oggetto questa tematica, fermo restando che, a mio sommesso avviso, alcune pronunce della Cassazione destano più di qualche perplessità.

Vengo al punto.

Con sempre maggior frequenza si osserva come l’Agenzia delle Entrate si limiti a rilevare il fatto noto della ristretta compagine societaria e, richiamata la consolidata giurisprudenza della Cassazione, magari con qualche stringato commento incentrato sul tema della “ristretta base partecipativa”, accerti in capo ai soci maggiori utili che sono tutt’altro che extra-contabili, nonostante il chiaro e costante riferimento, in tutti gli arresti giurisprudenziali sul tema degli ultimi quindici anni, sia all’attribuzione ai soci degli utili extra-contabili, degli utili non contabilizzati, degli utili occulti e via dicendo.

Il ragionamento presuntivo, come si è visto, è semplice: se una società di capitali a ristretta base consegue dei ricavi occulti perché non li contabilizza, oppure distrae risorse mediante l’utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, l’intento è evidente ed è quello di distribuire ricchezza, per l’appunto occulta, ai soci, sia di diritto, sia di occulti, al fine di evitarne la tassazione.

Per quanto attiene all’IVA, credo sia invece necessario considerarla a parte, dal momento che a volte diventa il corrispettivo riconosciuto al fornitore dei servizi illeciti, a volte viene invece spartita tra le parti e, quindi, va ad incrementare “il bottino” delle imposte dirette nel caso di utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, oppure costituisce la quota parte di risparmio fiscale illecito nelle diverse ipotesi di soggettiva inesistenza delle operazioni economiche oggetto di attenzione.

A mio sommesso avviso il concetto non muta, poiché è evidente che in simili frangenti lo schermo societario dato dalla persona giuridica diventa un’arma che contribuenti disonesti e/o vere e proprie consorterie criminali utilizzano per appropriarsi di utili extra-contabili costituiti, a seconda dei metodi utilizzati e della propria forza contrattuale, dalle imposte dirette e/o da quota parte dell’IVA.

Detto questo, mi è capitato, ormai quasi dieci anni fa, di assistere un cliente in una vicenda tributaria che, a distanza di tempo, continuo a trovare singolare, a tacer d’altro: nel 2014, l’Agenzia delle Entrate, in relazione all’annualità di imposta 2009, ha accertato in capo ad una società per azioni un maggior reddito imponibile ai fini IRES di € 430.000,00, per l’effetto di una ripresa fiscale avente ad oggetto una plusvalenza da cessione di partecipazioni.

L’importo in questione, frutto di un accertamento analitico, è conseguito, da un lato, al mancato riconoscimento dell’IVA corrisposta in Francia su una complessa operazione immobiliare, condotta da una società di diritto francese interamente posseduta dalla società italiana e, dall’altro lato, da una diversa valorizzazione della partecipazione ceduta e dall’esclusione dell’esenzione per mancanza del requisito della commercialità della società ceduta, poiché questa, una NewCo, all’atto della cessione non aveva ancora completato la ristrutturazione di un ex complesso alberghiero trasformato in residence e proceduto alla cessione a terzi delle singole unità immobiliari.

Ora, prescindendo dal merito della vicenda, pur molto interessante, mi sento sereno nell’affermare che nella vicenda in scrutinio la ripresa si frutto di un accertamento analitico, contabile e, come tali, i maggiori redditi accertati non possono in alcun modo essere definiti utili extra-contabili, essendo frutto di riqualificazioni di voci di bilancio: l’equivoco è evidentemente quello di identificare un maggior reddito contabile accertato alla stregua di un utile occulto distribuito.

Detto in altri termini, l’Ente accertatore non contestò alla società di aver ceduto le partecipazioni al valore nominale a fronte di un corrispettivo percepito in nero, fatto questo che avrebbe ricondotto nell’alveo della granitica giurisprudenza di legittimità l’azione accertatrice, bensì ha disconosciuto ai fini fiscali il valore di cessione della partecipazione indicato a bilancio in regime di esenzione, ha disconosciuto l’importo dell’IVA realmente corrisposta all’Erario francese (nella vicenda de qua l’Ufficio non mise mai in dubbio questo aspetto) ed ha così calcolato l’imponibile ai fini delle II.DD su un maggior reddito contabile, che è stato immotivatamente ed illegittimamente trattato alla stregua di un utile occulto.

Ora, note agli addetti ai lavori le problematiche che affliggono da tempo immemore il processo tributario e noto il livello qualitativo medio della giurisdizione tributaria, nella vicenda che ho richiamato alla memoria emergevano plurime questioni di rilievo ai fini del decidere che era imprescindibile trattare: in primis la contestazione di abuso del diritto, del tutto fuori luogo; a seguire la determinazione della plusvalenza senza tener conto che la cessione in blocco dell’operazione al valore dei costi sino ad allora sostenuti era conseguenza dell’impossibilità sopravvenuta, a livello finanziario, di condurre al termine i lavori e di attendere la cessione delle singole unità immobiliari ricavate dalla trasformazione di un ex albergo per rientrare dell’investimento (l’utile dell’operazione l’ha giustamente conseguito chi ha approfittato dello stato di necessità della mia assistita ed è subentrato in corsa nell’operazione portandola a compimento); a seguire, l’esclusione dell’operatività del regime di participation exemption sul presupposto del difetto del requisito della commercialità della NewCo ceduta, senza tener conto che la cessione era conseguita alle difficoltà finanziare della controllante italiana, che non aveva le disponibilità finanziarie necessarie a completare la prima operazione immobiliare (la NewCo venne trattata alla stregua di una società che detiene le proprietà immobiliare a beneficio e godimento dei soci); il disconoscimento dell’IVA corrisposta al Fisco francese e, infine l’attribuzione per trasparenza ai soci persone fisiche della società per azione che deteneva le quote della controllata francese.

Si tratta con tutta evidenza di temi complessi anche ad essere considerati singolarmente, sicché la loro coesistenza ha determinato un fascicolo processuale complesso che avrebbe meritato – non ho timore ad affermarlo – ben altro livello di competenza o, quantomeno, di zelo.

Infatti, è evidente per tabulas, cioè senza essere chiamati all’oneroso sforzo di fornire una prova contraria negativa, che il maggior reddito accertato a livello contabile non sia un utile occulto e, soprattutto, che nessuna risorsa finanziaria intesa in senso lato sia mai uscita dalla disponibilità della società controllante per finire direttamente nelle tasche dei soci dell’epoca.

Ebbene, l’Ufficio, interpretando pro domo sua la giurisprudenza dell’epoca, così motivò la ripresa azionata nei confronti del socio: «costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato, sancito da numerose sentenze della Corte di Cassazione (Cassazione Sentenze n. 15334/2013, n. 3896/2008, n. 1906/2008, n. 18640/2008, n. 25688 del 04/12/2006, n. 16729 del 08/08/2005, n. 16885/2003, n. 10951/2002, n. 7174/2002) quello secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria, in caso di accertamento di utili non contabilizzati, opera la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili stessi, salva la prova contraria e la dimostrazione che i maggior utili siano stati accantonati o reinvestiti (si veda in ultimo, Cassazione Ordinanza n. 12329/2014)».

Ora, sin dall’esame del primo arresto giurisprudenziale citato nell’occasione dall’Ufficio (Cass. Sent. 15334/2013) si osserva come fosse «principio costantemente ribadito da questa Corte secondo cui “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci, degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, per essere stati, invece, accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti» (enfasi aggiunta).

Ciò posto, se è corretto l’ambito di applicazione (in tema di accertamento delle imposte sui redditi) e se è ormai pacifico che la presunzione de qua non costituisca una presunzione di secondo livello anche nell’ipotesi in cui il maggiore utile accertato in capo alla società a ristretta base sia frutto, a sua volta, di altro ragionamento presuntivo, manca a mio sommesso avviso un presupposto indefettibile, e cioè che l’utile attribuito ai soci per trasparenza sia di natura extra-contabile, come costantemente definito dalla Cassazione, e non un maggior reddito di natura contabile.

Avuto riguardo a questo specifico aspetto, la circostanza che la prova contraria a disposizione del socio per difendersi dalla pretesa azionata nei suoi confronti come conseguenza del maggiore utile extra-bilancio accertato in capo alla società di capitali a ristretta base, sia quella di «offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, per essere stati, invece, accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti», a mio sommesso avviso richiede un’ulteriore riflessione che il difensore in ambito tributario dovrebbe fare a stretto contatto con il difensore in ambito penale, essendo palese che tale prova contraria, ammesso e non concesso che trovi accoglimento nelle Corti di Giustizia Tributaria, assomiglia a mio avviso ad un cappio al collo con riferimento ad un’imputazione di riciclaggio o auto-riciclaggio, a seconda del contesto concreto.

L’evoluzione normativa nei due ambiti di interesse per questi temi, cioè quello tributario e quello penale-tributario, è costante e procede a ritmi sostenuti, sicché una strategia difensiva adeguata non può prescindere da una valutazione complessiva del contesto di riferimento, del fascicolo processuale penale, da cui di solito si ottiene, con motivazione per relationem, il fascicolo amministrativo, e delle eventuali conseguenze e ricadute (non solo negative, ovviamente) che possono verificarsi da un ambito all’altro.

A distanza di circa dieci anni, proprio in questi giorni, mi è capitato di dover assistere dei clienti in relazione a tre avvisi di accertamento in cui la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio ai soci di società di capitali a ristretta base è stata nuovamente utilizzata dall’Ufficio. In tale vicenda, a mio sommesso avviso, si è nuovamente andati ben oltre le chiare indicazioni desumibili da una giurisprudenza di legittimità fin troppo protesa a favore della parte pubblica.

La questione, piuttosto articolata, è così sintetizzabile:

–           l’Ente accertatore, sulla scorta del contenuto del fascicolo delle indagini preliminari che gli è stato messo a disposizione (rectius di un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, che ha riassunto le risultanze investigative cristallizzando il punto di vista degli inquirenti), ha ritenuto che alcuni costi sostenuti dalla società dei miei assistiti per l’acquisto di rottami metallici siano afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti. In tesi d’accusa la società si sarebbe rivolta al sodalizio criminale oggetto di indagini per ottenere fatture false necessarie a dare una giustificazione contabile agli acquisti in nero di materiali e, a fronte del servizio illecito ricevuto, avrebbe corrisposto un importo pari al 9% dell’imponibile di ciascuna fattura;

–           come diretta conseguenza di tale impostazione, l’Ufficio ha “recuperato” l’IVA sugli acquisti maggiorata di interessi e sanzioni, nonostante l’operatività del regime di inversione contabile garantisca che né la società che assisto, né le sue controparti economiche, abbiano potuto in qualche modo impossessarsene, ed ha recuperato l’IRES e l’IRAP calcolandoli su un imponibile pari al 9% delle fatture ricevute dai fornitori incriminati, ritenendo indeducibile il costo sostenuto per l’ottenimento del servizio illecito di cui sopra;

–           l’Ufficio ha agito nei confronti dei soci della società, estinta, ritenendoli illimitatamente responsabili per le obbligazioni tributarie della società. Tale impostazione discende da quella che, personalmente, ritengo integri una scorretta applicazione dell’art. 28, comma 4 del D.Lgs. 175/2014 in relazione all’art. 2495 c.c., interpretato alla luce della giurisprudenza a cui si è fatto cenno.

Come noto, l’art. 28, comma 4 del D.Lgs. n. 175/2014 prevede che «ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese».

Ciò posto, se la regola è che i soci di una società a responsabilità limitata estinta rispondono per le obbligazioni societarie nei limiti delle eventuali attribuzioni patrimoniali ricevute in sede di liquidazione, poiché la persona giuridica estinta era una società a ristretta base, l’Ufficio ha ritenuto di agire direttamente nei confronti dei soci, senza alcun limite ed a prescindere dal fatto che questi abbiano ricevuto o meno attribuzioni patrimoniali al termine della fase liquidatoria, sulla scorta delle indicazioni contenute nell’Ordinanza n. 20840 del 18 luglio 2023 della Corte di Cassazione, che l’Ente accertatore ha richiamato nella motivazione degli atti impositivi.

Detto ciò, la vicenda che ho provato a riassumere nei suoi tratti essenziali mi ha messo nuovamente di fronte alla necessità di tracciare quali siano i limiti entro cui il ragionamento presuntivo della distribuzione degli utili extra-contabili ai soci di società di capitali a ristretta base possa definirsi correttamente applicato sulla scorta degli insegnamenti desumibili dalla ventennale giurisprudenza di legittimità.

Infatti, se dall’esame della giurisprudenza richiamata dall’Agenzia delle Entrate nei propri atti abbiamo visto che il ragionamento presuntivo in questione dovrebbe operare con riferimento alle società di capitali a ristretta base, nelle ipotesi di accertamento delle imposte dirette e con riferimento agli utili extra-bilancio, all’atto pratico l’Ente accertatore ha attribuito per trasparenza “coatta” ai soci maggiori redditi di natura contabile e, dulcis in fundo, un’IVA che rappresenta una ricchezza letteralmente inventata, come effetto di una discutibile interpretazione delle Sezioni Unite.

Venendo al caso concreto, pur prescindendo dal merito della vicenda, l’affermazione di controparte secondo cui il corrispettivo del 9% sul valore di ciascuna fattura che, in tesi d’accusa, la società avrebbe pagato alla cartiera per ottenere fatture soggettivamente inesistenti a copertura degli acquisti in nero, sarebbe finito nelle tasche dei soci, quando è lo stesso Ufficio che afferma che questo sia il prezzo pagato alle società cartiere per i servizi illeciti ottenuti, è a dir poco surreale; e ancor più surreale è pretendere che le parti private debbano fornire una prova contraria quando la prova contraria è la stessa tesi accusatoria penale e, giusta richiamo per relationem, tributaria!

L’Ufficio afferma che il 9% rappresenta il prezzo pagato dalla società al sodalizio per ottenere le fatture false di cui aveva bisogno e, se limitasse a ritenere indeducibile il costo ed a richiedere alla società le imposte dirette, nulla quaestio: il punto è che l’Ufficio, utilizzando la presunzione di cui stiamo discutendo, sostiene che l’importo de quo sia finito nelle tasche dei soci, pretende da questi ultimi la prova contraria, nonostante le premesse da cui muove è che tali risorse siano finite nelle tasche della cartiera ed utilizza tale fatto come prova a carico del contribuente!

Un cortocircuito pazzesco che grida, se non vendetta, quantomeno Giustizia; un cortocircuito che consegue ad un’applicazione irrazionale e non meditata dei potenti strumenti messi a disposizione del Fisco dal Legislatore, ulteriormente potenziati in fase applicativa da una giurisprudenza alquanto magnanima nei confronti della parte pubblica, a tacer d’altro.

La situazione non migliora, anzi tocca vette di vera e propria follia, se si esamina funditus il recupero di poco meno di dieci milioni di euro di Imposta sul Valore Aggiunto che è stato azionato nei confronti della società ed esteso ai soci come effetto del richiamato ragionamento presuntivo.

È noto agli addetti ai lavori che il regime IVA di inversione contabile rappresenti un’eccezione al regime ordinario e che sia stato introdotto dal Legislatore comunitario all’unico fine di impedire la commissione delle frodi IVA vietandone la corresponsione al fornitore o l’addebito al cliente in settori considerati a forte rischio: il regime de quo prevede infatti che il cessionario annoti l’IVA della fattura passiva in “in dare” e “in avere” e, quindi, non corrispondendola al fornitore, impedisce che questo se ne appropri e non la versi all’Erario.

Ora, l’attività accertativa dell’Agenzia delle Entrate negli anni ha visto l’adozione di una linea interpretativa secondo la quale la seconda registrazione contabile dell’IVA su una fattura ricevuta, essendo equiparabile all’IVA esposta su una fattura emessa, dava diritto al Fisco alla sua apprensione, giusta applicazione per via analogica dell’art. 21 comma 7 del D.P.R. n. 633/1972.

Dopo anni di bagarre giudiziarie con esiti favorevoli ora ai contribuenti, ora al Fisco, il Legislatore è opportunamente intervenuto, nel 2015, modificando l’incipit dell’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972, così chiarendo che la norma de qua opera per “il cedente” ed il “prestatore” e, quindi, ha escluso la sua estensione per via analogica ad altri ambiti.

Ciò posto, con gli atti di accertamento emessi in epoca successiva, il Fisco non ha più potuto recuperare il 22% di IVA, maggiorata di interessi e sanzioni al 135%, ma si è “limitato” all’irrogazione di una sanzione dal 5% al 10% dell’imponibile delle fatture false in regime di inversione contabile ex art. 6, comma 9 bis 3 del D.Lgs. 471/1997, con evidente “crollo” in parte qua dei proventi della lotta all’evasione.

Tale modus operandi è proseguito fino al 2022, quando le Sezioni Unite, con la sentenza n. 22727 del 20 luglio 2022, si sono pronunciate in merito alla controversa questione concernente l’applicabilità dell’art. 6, comma 9 bis 3, secondo periodo, del D.Lgs. n. 471/1997 ai casi di operazioni inesistenti soggette ad inversione contabile, stabilendo che il secondo periodo della norma si applica alle sole ipotesi di operazioni inesistenti, regolate dal cessionario con l’inversione contabile interna, che siano anche esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta: con una nota di sarcasmo, un’interpretazione funzionale a porre un freno all’annoso problema delle fatture false emesse da cartiere banche, cartiere intermediari finanziari e cartiere medici!

Sarcasmo a parte, questa è la giurisprudenza che ha permesso all’Agenzia delle Entrate di tornare a richiedere il 22% di un’imposta mai evasa, maggiorata di interessi e sanzioni dal 135% al 270%, nonostante lo scopo dichiarato del regime IVA dell’inversione contabile sia quello di impedire la commissione di frodi ma, soprattutto, nonostante tale funzione sia assolta in modo egregio, poiché vietando che l’IVA sia corrisposta al fornitore e/o richiesta al cliente, da un lato, e portata in detrazione, dall’altro lato, ne impedisce fisicamente il furto: il gettito della lotta all’evasione ed il quantum su cui verosimilmente vengono calcolati i premi di produzione sono così tornati ai fasti di un tempo.

Ora, pur conscio che, ubi maior minor cessat, credo sia tuttavia oggettivo ed innegabile che l’IVA così recuperata sia un’IVA puramente contabile: quella resa dalle Sezioni Unite è un’interpretazione (discutibile) che non nega né lo scopo, né la funzione, né l’efficacia del regime IVA del reverse charge, ma consente al Fisco di poter chiedere al contribuente un’IVA “creata” in sede accertativa a livello puramente contabile, come conseguenza dell’eliminazione (contabile) della scritturazione “in avere” con cui il cessionario ha registrato l’IVA sulla fattura falsa: un’alchimia contabile che crea dal nulla una ricchezza di milioni di euro che, non esistendo se non nella fantasia, non può essere stata rubata da chicchessia.

Un breve esame del funzionamento del meccanismo può aiutare a comprendere il problema.

I passaggi per fatturare e contabilizzare correttamente le operazioni svolte in regime di inversione contabile possono essere così sintetizzati:

–       il venditore emette normalmente la fattura ma non addebita l’imposta sul valore aggiunto, registra la fattura di vendita nel registro IVA vendite e, conseguentemente, non ha alcun debito verso l’Erario;

–       l’acquirente che riceve i beni e la relativa fattura, la integra inserendo l’importo dell’IVA in base all’aliquota applicabile ed esponendo la dicitura “Operazione soggetta a reverse charge ex art. 17 D.P.R. n. 633/1972”;

–       l’acquirente registra la fattura di acquisto sia sul registro IVA acquisti, sia sul registro IVA vendite. Con la rilevazione dell’importo dell’IVA sia a credito, sia a debito, il saldo IVA è pari a zero.

Come è facile comprendere, la corretta applicazione del regime IVA dell’inversione contabile impedisce che circolino somme di denaro a titolo di IVA tra le controparti di un’operazione economica soggetta al regime de quo e, di conseguenza, nessuna parte se ne può appropriare illecitamente.

Ciò posto, in sede accertativa l’Ufficio, forte del richiamato arresto giurisprudenziale, ritiene “indetraibile” e, quindi, dovuta, un’IVA che, con tutta evidenza, non è mai stata detratta perché il saldo è pari a zero: è una semplice scritturazione contabile, non un valore monetario circolato tra le parti e, come tale suscettibile di essere stato appreso.

Pertanto, si tratta con tutta evidenza di un’alchimia contabile della fase accertativa e non di una posta extra bilancio che possa realisticamente presumersi distribuita ai soci di società di capitali a ristretta base partecipativa.

In conclusione, pur con le note criticità che caratterizzano l’attuale processo tributario, credo che si possa valorizzare in chiave difensiva un approccio più rigoroso alle chiare linee guida che emergono dal tenore letterale della copiosa giurisprudenza in tema di presunzione della distribuzione degli utili occulti ai soci delle società di capitali a ristretta base, traendo vantaggio da un appiattimento degli Uffici che, sentenza favorevole dopo sentenza favorevole, anno dopo anno, hanno adottato questo modello accertativo in modo sempre più ripetitivo ed acritico, così aprendo uno spazio valorizzabile dalle difese.

Sotto questo profilo, la prova contraria ammessa, al ricorrere di determinate condizioni (frodi IVA, false fatturazioni, superamento di soglie di punibilità, ecc.) rischia, a mio sommesso avviso, di assumere i contorni di una vera e propria confessione in relazione a gravissime ipotesi di reato, fra cui balzano alla mente, a seconda del caso, quella di riciclaggio e di auto-riciclaggio.

Pur attribuendo valore alla collaborazione tra Fisco e contribuente, spiegare una difesa dalla pretesa azionata nei confronti del socio di una società di capitali a ristretta base sul presupposto che gli utili extra-contabili accertati siano altrove perché rimasti in società, o reimpiegati o reinvestiti, se può avere un significato, tutto da dimostrare, limitatamente all’ambito tributario, rischia di rivelarsi fatale in un ipotetico parallelo ed indipendente processo penale: difendersi affermando che le somme restituite in contanti dalla cartiera al socio a fronte di operazioni oggettivamente inesistenti sono state da questo reimmesse in società ed impiegate per acquisti di materie prime o macchinari, non mi sembra una scelta vincente e rimango dell’idea che il contribuente, assumendo la veste di indagato/imputato, abbia diritto di difendere la propria tesi e, banalmente, di non essere costretto a “dire la verità”.

In ogni caso, questa è una scelta che la parte privata assistita dovrebbe assumere con consapevolezza e solo dopo che i professionisti che la assistono in entrambi gli ambiti si sono opportunamente confrontati tra di loro.

Ecco che, esclusa questa ipotetica difesa, cassata da lungo tempo l’eccezione che tale presunzione violi il divieto di presunzioni di secondo grado, occorre a mio avviso sviluppare una strategia che utilizzi la forza del proprio avversario contro di esso e da qui la riflessione oggetto di questa digressione.

Se, dal fatto noto che due fratelli, soci di una società a responsabilità limitata, è lecito dedurre il fatto ignoto che questi ultimi siano i beneficiari economici effettivi dei ricavi in nero definitivamente accertati a carico della loro società, altrettanto non può sostenersi in relazione a poste di natura contabile essendo per tabulas che gli eventuali maggiori redditi (non utili, ma redditi) siano all’interno della società; in tale frangente non occorre una prova contraria perché è la prova stessa valorizzata dal Fisco a deporre in tal senso e non resta che valorizzarla in questa chiave, fatte salve le difese nel merito.

Esemplificando, nel caso che ho seguito dieci anni fa i maggiori utili accertati alla società per azioni, essendo un valore venuto ad esistenza come conseguenza di un accertamento analitico, per forza di cose era in contabilità e, quindi, difettavano i requisiti per presumere che questo maggior reddito fosse un utile e che lo stesso fosse stato percepito in via occulta da parte dei soci dell’epoca, non essendo sufficiente la sola ristretta base partecipativa a supportare il ragionamento presuntivo qui affrontato.

Analogo discorso vale per i corrispettivi pagati a fronte della fruizione di servizi illeciti: se è corretto che gli stessi siano recuperati a tassazione nei confronti della società che li ha contabilizzati, perché privi dei requisiti di cui all’art. 109 del T.U.I.R. e, parimenti, nel caso di cessazione della società, è corretto che i soci rispondano di tale debito tributario in ossequio ai principi generali, e cioè nei limiti delle attribuzioni patrimoniali eventualmente ricevute in sede liquidatoria, non occorre alcuna prova contraria per dimostrare ciò che è alla base della tesi accertativa dell’Amministrazione Finanziaria all’atto del recupero, e cioè che tali somme siano state incamerate in via definitiva dalla cartiera di turno a fronte del servizio illecito prestato: già la prova contraria è diabolica, in quanto prova negativa, ma arrivare addirittura a sostenere che la parte privata sia onerata di provare un fatto storico che è smentito dalla tesi accertativa portata avanti dalla stessa Agenzia delle Entrate in relazione alla medesima vicenda tributaria, solleva più di una perplessità, a tacer d’altro.

Discorso a parte merita l’Imposta sul Valore Aggiunto, per via delle molteplici forme di evasione in concreto ricontabili.

Infatti, non in tutti gli schemi di frode accertati è lecito presumere che una quota più o meno rilevante dell’IVA sia finita direttamente nelle tasche dei soci delle società di capitali a ristretta base: infatti, molto spesso l’IVA rappresenta in tutto o in parte il guadagno marginalizzato dalla cartiera a fronte del servizio illecito reso ai suoi clienti e, anche quando una parte di essa viene restituita, ad eccezione dell’ipotesi di utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, in cui la restituzione per contanti dell’imponibile della fattura falsa e di una parte dell’IVA viene fatta a mani del beneficiario economico effettivo, la stessa permane all’interno della società; si pensi, ad esempio, a fatturazioni per operazioni soggettivamente inesistenti in cui la quota parte di guadagno illecito di pertinenza dell’utilizzatore si manifesta attraverso acquisti di beni e servizi a prezzi che si collocano al di fuori dei valori medi del mercato di riferimento.

Come è possibile sostenere che tali prezzi di acquisto particolarmente vantaggiosi vadano a generare un utile extra-bilancio e, a seguire, presumere che lo stesso sia stato acquisito in modo occulto da parte dei soci, rimane per me un mistero: dato per costante il prezzo di vendita dell’ipotetico bene ceduto, ad un prezzo di acquisto fuori mercato verso il basso delle materie prime necessarie alla sua realizzazione corrisponde semmai un maggior utile contabile che, se è stato attribuito ai soci, lo è stato in modo palese!

Infine, il recupero dell’IVA assolta in regime di inversione contabile: la dimostrazione che fantasia, furbizia e spirito di adattamento sono una prerogativa nazionale che ci riguarda tutti, senza distinzioni tra cittadini e Pubblica Amministrazione in senso lato: creare milioni di euro a livello contabile letteralmente dal nulla e presumerne l’apprensione da parte dei soci di società a ristretta base richiede i massimi livelli di queste italiche doti. 18 lug 2024

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