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Sono ripetibili le somme versate a titolo di ravvedimento operoso? di avv. Vincenzo Fusco

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Sono ripetibili le somme versate a titolo di ravvedimento operoso? di avv. Vincenzo Fusco

Come sappiamo, il ravvedimento operoso, disciplinato dall’art. 13, D. Lgs. n. 472/1997, è quell’istituto che consente ai contribuenti o agli obbligati in solido, di porre rimedio spontaneamente ad errori od omissioni, fruendo di una riduzione delle sanzioni rapportata sia in base al tipo di errore commesso, sia in base all’arco temporale per il quale lo stesso si è protratto, “… con l’obiettivo di garantire una maggiore premialità per il contribuente che si attivi tempestivamente rispetto al momento di commissione della violazione oggetto di regolarizzazione” (Circ. Ag. Entrate 9.06.2015, n. 23).

In una logica di sinallagmaticità, l’effetto premiale dello sconto sulle sanzioni è bilanciato dal vantaggio per l’Erario o per l’ente impositore di contare su un immediato incremento di gettito, risparmiando tempo e risorse rispetto a quelle impiegate negli ordinari procedimenti di accertamento e di eventuale contenzioso.

La ratio originaria dell’istituto era quella di consentire all’autore della violazione di rimediarvi spontaneamente: la premialità, rappresentata da una riduzione delle sanzioni, era quindi l’effetto della resipiscenza del contribuente che si attivava per riparare all’irregolarità commessa, prima che la stessa fosse rilevata dall’amministrazione finanziaria.

Tuttavia, a seguito della Legge di stabilità del 2015 (L. 23.12.2014, n. 190), il ravvedimento ha perso il suo connotato di spontaneità, tanto che, in base all’attuale previsione normativa, i contribuenti possono fruire dell’istituto per tutti i periodi d’imposta ancora accertabili e a prescindere dall’eventuale inizio di accessi, ispezioni, verifiche o altre attività “prodromiche” all’accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria[1], fatta eccezione per i controlli automatizzati (art. 36-bis, D.p.r. n. 600/1973) e i controlli formali (art. 36-ter, D.p.r. n. 600/1973) [2].

Seguendo questa logica, la bozza del decreto di riforma delle sanzioni amministrative pare vada nella direzione di incentivare l’utilizzo del ravvedimento operoso, poiché, in conseguenza delle modifiche apportate in tema di contraddittorio preventivo obbligatorio (art. 6-bis, L. n. 212/2000) che prevedono la notifica al contribuente dello “schema d’atto” (art. 1, co. 2-bis, D. Lgs. n. 218/1997), viene prevista una riduzione della sanzione in funzione di tale notifica, ampliandone così il raggio d’azione[3].

Il testo di riforma delle sanzioni, infatti, prevede che, dopo l’intervento del Fisco, attraverso lo “schema d’atto”, la riduzione delle sanzioni in caso di ravvedimento sia pari a:

– un sesto, se la regolarizzazione interviene dopo la comunicazione dello schema di atto di cui all’articolo 6-bis dello Statuto, se lo schema non risulta preceduto da un p.v.c.;

– un quinto, se il ravvedimento avviene dopo il p.v.c. a cui non si presta adesione e prima della comunicazione del citato schema di atto;

– un quarto se la regolarizzazione avviene dopo lo schema di atto relativo a violazioni contenute in un p.v.c.

Ulteriore impulso all’utilizzo dell’istituto previsto nella bozza del decreto di riforma delle sanzioni amministrative è rappresentato dalla possibilità di applicare il cumulo giuridico, consentendo, anche in caso di ravvedimento, di determinare la sanzione unica, ex art. 12, D. Lgs. n. 472/1997[4].

D’altra parte, il ricorso all’istituto in esame è stato già da tempo incoraggiato grazie ai benefici dal punto di vista penale, attraverso la previsione di una causa di non punibilità (art. 13, L. n. 74/2000) per i reati di omesso versamento, indebita compensazione, omessa ed infedele dichiarazione e, da ultimo, anche per il delitto di dichiarazione fraudolenta, sia essa “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” o “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici[5]. In via residuale, per gli altri illeciti penali, il ravvedimento costituisce altresì circostanza attenuante e condizione per accedere al patteggiamento.

Tanto premesso a livello di inquadramento generale, l’interrogativo su cui ci si intende brevemente soffermare in questa sede è il seguente: successivamente al ravvedimento operoso il contribuente può ripetere quanto versato e se sì a quali condizioni? Di primo acchito, in tali circostanze, la richiesta di rimborso dovrebbe presupporre un pagamento indebito.

Il ripensamento sulla sanzionabilità della condotta è stato portato al vaglio della Suprema Corte in diverse occasioni, invocando, a motivo della carenza del presupposto sanzionatorio legittimante il rimborso, l’assenza di colpevolezza di cui all’art. 5, D. Lgs. n. 472/1997 e le condizioni di non punibilità previste dall’art. 10, co. 3, L. n. 212/2000.

Secondo l’indirizzo per così dire “tradizionale”, è preclusa qualsiasi forma di ripetibilità di quanto corrisposto a titolo di sanzioni per effetto di ravvedimento, fatta salva la sussistenza di errori “formali, essenziali e riconoscibili”.

Più precisamente, “Deve al riguardo rilevarsi che la mancanza di colpevolezza ex art. 5 D. Lgs. 472/97 e la causa esonerativa di cui all’art. 10 L. 212/00 rilevano e possono essere invocate dal contribuente nel solo caso di sanzioni inflitte dall’Amministrazione, ma non anche quando il pagamento della sanzione, in misura ridotta, usufruendo in tal modo di misura agevolativa, sia frutto di una scelta del contribuente medesimo, che abbia fatto ricorso al c.d. ravvedimento operoso. Una volta che si sia perfezionata la fattispecie di ravvedimento operoso è precluso al contribuente, […], la ripetizione di quanto versato, con conseguente inammissibilità della relativa istanza, salvo il caso di errori formali essenziali e riconoscibili” (Cass. 30.03.2016, n. 6108).

La statuizione viene richiamata dalla pressoché coeva Cass. 21.12.2016, n. 26545 e, successivamente, da Cass. 14.11.2018, n. 29299.

In sostanza, sulla base di questo primo orientamento, una volta che il contribuente decide di accedere all’istituto del ravvedimento, ammette implicitamente di aver commesso la violazione, sicché la successiva istanza di rimborso si porrebbe in palese contraddizione con la condotta precedentemente assunta. Tale conclusione, sempre ad avviso della Suprema Corte, non sarebbe estendibile alle ipotesi di errori “formali, essenziali e riconoscibili”, gli unici a rendere ripetibili le sanzioni versate a titolo di ravvedimento, in quanto “… idonei ad alterare la formazione della volontà del contribuente[6].

Insomma, secondo la Cassazione, una volta che il contribuente ha eletto scientemente la via del ravvedimento non può più tornare indietro, a meno che non dimostri la sussistenza di circostanze di fatto formali, essenziali e riconoscibili che abbiano alterato il proprio convincimento.

Nel tentativo di interpretare il pensiero della Cassazione, la resipiscenza a seguito di ravvedimento potrebbe essere ammessa in limitatissimi casi, quale, ad esempio, quello per cui si provvede a sanare un presunto tardivo versamento, leggendo per una mera svista la data apposta sulla delega di pagamento “26.02.2024”, quando in realtà il versamento è stato eseguito correttamente il “16.02.2024”.

Un secondo e più recente orientamento (Cass. 16.12.2020, n. 28844), invece, pare riconosca un più ampio margine nel chiedere a rimborso le sanzioni versate a titolo di ravvedimento, che esula dalla nozione di errore “formale, essenziale e riconoscibile” a base della sanatoria.

La Suprema Corte, infatti, nel rilevare preliminarmente che “… le somme versate in esecuzione del ravvedimento operoso (imposta e relative sanzioni ridotte) sono avvenute in assenza del presupposto impositivo[7], ribadisce l’importante principio secondo cui “… il contribuente deve essere ammesso a correggere ogni tipo di errore […] Ciò equivale ad affermare che anche il ravvedimento operoso, come la stessa dichiarazione dei redditi (Cass. nn. 29738/2008, 4238/2004) o dell’IVA (Cass. nn. 3904/2004, 18774/2003) e come ogni altra dichiarazione del contribuente (Cass. n. 1128/2009), è ritrattabile o modificabile, nella misura in cui è affetto da errore, non essendo lo stesso contribuente tenuto a pagare più di quanto deve rimanere per legge a suo carico (Cass. Sez. V, 17 novembre 2010, n. 23177)”.

È interessante innanzitutto sottolineare il passaggio della Corte nella parte in cui assimila il ravvedimento alla dichiarazione del contribuente, nel senso che il primo, al pari della seconda (fatti salvi i casi in cui con essa dichiarazione venga esercitata un’opzione offerta dal legislatore[8] o vengano fruite agevolazioni fiscali[9]) è sempre ritrattabile o modificabile laddove il contribuente, quale titolare di situazioni giuridiche tributarie, si avveda di una difformità rispetto all’applicazione del “giusto tributo” e alla “determinazione quali-quantitativa del presupposto[10], confermando, quanto alla natura del ravvedimento, il connotato di mera dichiarazione di scienza.

È solo il caso di aggiungere che la natura di dichiarazione di scienza del ravvedimento, parificabile a quella della dichiarazione, la si desume anche da un dato sistematico, rappresentato dalla norma (art. 1, co. 640, L. n. 190/2014) che prevede lo slittamento in avanti del dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio della funzione impositiva nelle ipotesi di dichiarazione integrativa, ponendo sullo stesso piano quelle presentate “… ai sensi degli articoli 2, comma 8, e 8, comma 6-bis, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, e successive modificazioni, e 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, e successive modificazioni”.

Ciò posto, la Cassazione conclude statuendo che il ravvedimento operoso non è ostativo al rimborso delle sanzioni nei casi in cui fosse assente ab origine il presupposto impositivo e le violazioni commesse dal contribuente siano di tipo formale, intese come quelle che “… non arrechino pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e, al contempo, ove non incidano sulla determinazione della base imponibile dell’imposta e sul versamento del tributo (Cass., Sez. V, 6 ottobre 2017, n. 23352; Sez. VI, 4 giugno 2018, n. 14158)”.

Fermo rimanendo che non è sempre di agevole individuazione la natura della violazione, se sia essa “meramente formale”, “formale” o “sostanziale”[11], in dottrina sono stati avanzati dubbi, circa l’elemento che dia luogo alla ripetibilità delle somme[12], nell’ottica del nesso di causalità, giungendo ad una ricostruzione esegetica volta a contemperare i due diversi orientamenti espressi dalla Corte di Cassazione, in ragione della quale “… mentre per la ripetibilità delle somme corrisposte a titolo di violazioni formali e sostanziali sarebbe richiesto un errore incidente sul ravvedimento particolarmente oggettivizzato, non così accadrebbe per le somme corrisposte a titolo di violazioni meramente formali, per le quali l’errore svolgerebbe un ruolo del tutto ancillare, quasi eventuale, rispetto all’assenza del presupposto sanzionatorio, nel senso che qualunque tipologia di errore (anche non “oggettivizzato”) legittimerebbe la ripetibilità di tali somme”.

Consapevole del richiamato duplice indirizzo della Suprema Corte, un contributo è giunto anche dalla giurisprudenza di merito (Comm. trib. prov. Palermo, sez. VII, 13.09.2022, n. 2473[13]), la quale distingue due fattispecie che, a diverso titolo, consentirebbero di accedere al rimborso delle somme precedentemente versate per effetto di ravvedimento e cioè: i) la mancanza del presupposto impositivo e del conseguente indebito arricchimento dell’ente impositore (in quel caso, trattavasi del Comune) che darebbe diritto al rimborso delle imposte e degli interessi e ii) la presenza di un errore formale, che consentirebbe la restituzione delle somme versate per le sanzioni.

Per quanto in questa sede di interesse, preme altresì evidenziare un passaggio del Collegio panormita, ad avviso del quale il pagamento effettuato a seguito di ravvedimento non va considerato al pari di un’acquiescenza – contrariamente a quanto in precedenza sostenuto dalla Cassazione[14] – ben potendo il contribuente essere indotto ad accedere alla sanatoria in ragione della “… necessità di non subire attività di riscossione e di limitare le conseguenze del pagamento integrale delle sanzioni[15].

La condivisibile statuizione dei giudici palermitani è in linea con la mutata fisionomia del ravvedimento che – come detto in apertura del presente lavoro – ha acquisito i connotati di uno strumento permanente di regolarizzazione postuma delle violazioni tributarie, con ciò attribuendo al contribuente resipiscente non già un’opzione di tax compliance, quanto piuttosto uno strumento di gestione del rischio fiscale, nell’ottica di poter fruire di sanzioni ridotte e di paralizzare al contempo l’azione dell’ente impositore[16].

Ecco, dunque, che da questo angolo visuale emerge il tema più spinoso della vicenda in commento: quanto e come un utilizzo “strumentale” del ravvedimento operoso possa interferire con i poteri di accertamento e i termini di decadenza dell’azione accertatrice dell’amministrazione finanziaria.

Se lo si considera sotto questo punto di vista, è evidente come il ravvedimento non possa in alcun modo costituire in capo al contribuente un’implicita ammissione della violazione e delle conseguenze sanzionatorie da essa derivanti. Ne è conferma quanto asserito dalla stessa Amministrazione finanziaria[17] all’indomani delle modifiche introdotte dalla Legge di stabilità 2015, la quale, nel chiarire che è consentito “… accedere al ravvedimento operoso nonostante la violazione sia stata già constatata mediante pvc”, precisa che “ciò, tuttavia, non muta la natura e le finalità dell’istituto del ravvedimento operoso – che rimane un atto di regolarizzazione spontanea da parte del contribuente – nel senso che non lo trasforma in un atto di acquiescenza ai rilievi contenuti nel pvc”.

Tale chiave di lettura – suffragata dalla connotazione (v. Cass. 16.12.2020, n. 28844) del ravvedimento quale mera dichiarazione di scienza e, pertanto, sempre ritrattabile e modificabile – rappresenta, ad avviso di chi scrive, il grimaldello che consentirebbe di aprire il varco alla legittima ripetizione di quanto versato in sede di ravvedimento.

In successione diacronica, si registra, infine, il terzo e più recente indirizzo espresso sul tema dalla Suprema Corte (Cass. 5.05.2023, n. 11993)[18], ad avviso della quale il ravvedimento operoso costituisce un adempimento spontaneo, seppur tardivo, dei doveri fiscali che, proprio per il suo presupposto di “spontaneità”, è espressione di una scelta del contribuente; scelta di carattere negoziale, donde la sua ritrattabilità solo in caso di errore determinante, vale a dire essenziale e riconoscibile, ai sensi dell’art. 1428 cod. civ.; e ciò, ad avviso dei giudici di legittimità, indipendentemente: i) dalla natura della violazione, sia essa sostanziale o formale, in considerazione del fatto che la formulazione normativa dell’art. 13, D. Lgs. n. 472/1997 non reca alcuna previsione in tal senso; ii) dalla circostanza che l’atto dovuto, oggetto di regolarizzazione, costituisse una mera dichiarazione di scienza; iii) dalla mancanza ab origine dei presupposti sanzionatori, posto che ciò sarebbe in contrasto con la struttura ontologica del ravvedimento che prevede la libera scelta, da parte del contribuente, di soddisfare la pretesa erariale, senza metterla in discussione.

Va preliminarmente osservato come il richiamo fatto dalla Suprema Corte alle categorie civilistiche di “essenzialità” e “riconoscibilità” degli errori, ex art. 1428 cod. civ., quali vizi del consenso, mal si attaglia alle specificità della materia tributaria, laddove la dimostrazione dell’esistenza di un errore “qualificato” ai sensi dell’art. 1428 cod. civ. appare difficilmente raggiungibile.

Invero, assumendo che per “essenzialità” debba farsi riferimento ad un elemento intrinseco (non già estrinseco) nella determinazione dell’imposta, il vizio nella manifestazione di volontà del contribuente è sempre essenziale nella misura in cui incide sul rapporto tributario e, quindi, sulla determinazione dell’imposta.

Quanto alla “riconoscibilità”, l’indagine dovrebbe incentrarsi sulla rilevabilità dell’errore da parte dell’Amministrazione finanziaria, la quale sarebbe tenuta a valutare in concreto il comportamento tenuto dal contribuente, introducendo così un elemento soggettivo che determina forte incertezza ai danni del contribuente.

Secondariamente, benché il principio statuito dalla Corte risulti apparentemente generalizzante, lo stesso potrebbe essere stato influenzato dalla specificità del caso vagliato[19] che ha indotto i giudici di legittimità ad adottare l’impostazione basata sulla natura negoziale delle scelte effettuate dal contribuente, donde la loro irretrattabilità. Sta di fatto, però, che nella sentenza viene più volte ribadito che il ravvedimento costituisce una “dichiarazione di volontà”, una “scelta di natura negoziale e consapevole”, in ragione della quale “… si provvede a soddisfare la pretesa tributaria senza porla in discussione, beneficiando peraltro di un trattamento sanzionatorio ridotto”, rinnegando espressamente il precedente orientamento (Cass. 16.12.2020, n. 28844) che, nell’ “… attribuire un ruolo principale alla natura della violazione ravveduta” e nell’ “… ancorare la ripetibilità delle somme alla mancanza ab origine dei presupposti sanzionatori” ha determinato “incertezze sul punto”.

Come acutamente osservato in dottrina[20], il ragionamento della Corte potrebbe essere basato sul considerare l’opportunità offerta dalla legge secondo una logica del “prendere o lasciare”, indotta dal retropensiero per cui non è apprezzabile la condotta del contribuente che prima si assicura un beneficio (sanzioni ridotte e inibizione dell’esercizio della funzione impositiva) e poi ne rimette in discussione i presupposti.

Benché suggestiva, tale argomentazione non trova consenso.

Non è detto che qualsiasi forma di scelta del contribuente debba essere caratterizzata da totale irrevocabilità: l’inibizione dell’emenda prevista per i regimi opzionali o nel caso delle definizioni agevolate non può essere trasposta tel quel al ravvedimento, la cui ratio è totalmente diversa.

I primi (regimi opzionali), infatti, oltre alla richiesta formale, richiedono anche il comportamento concludente da parte del contribuente[21]; le seconde (definizioni agevolate) sono ontologicamente preclusive di qualsiasi tipo di ripensamento[22].

Se proprio si volesse individuare un istituto che possa essere paragonato al ravvedimento, esso andrebbe ricercato, ad avviso della stessa dottrina[23], nella definizione agevolata delle sanzioni, ai sensi dell’art. 17, co. 2, D. Lgs. n. 472/1997, per effetto della quale il contribuente può definire le sole sanzioni indicate nell’atto impositivo, pagando la sanzione irrogata, nella misura di un terzo, entro il termine per la presentazione del ricorso; in tal caso, benché il contribuente perda il diritto a contestare la sanzione irrogata (e a chiederne il rimborso in caso di esito favorevole del giudizio successivamente instaurato), conserva però la possibilità di adire il giudice tributario quanto alle maggiori imposte, anch’esse generate dalle stesse violazioni.

Come precisato dalla stessa Amministrazione finanziaria, “la definizione agevolata prevista dall’art. 17, comma 2, è riferita esclusivamente alle sanzioni e non comporta acquiescenza rispetto al tributo” (Circ. Min. 10.07.1998, n. 180/E). Pertanto, come detto, le sanzioni versate per effetto della definizione agevolata rimangono definitivamente acquisite dall’Erario, sebbene l’eventuale giudizio sulle maggiori imposte ne determini la non debenza per illegittimità/infondatezza della pretesa impositiva.

Allo stesso modo, in caso di ravvedimento, il vantaggio per l’Erario (si osservi quanto affermato in apertura del presente lavoro a proposito del sinallagma sotteso all’istituto) viene confermato nella misura in cui il contribuente, per sua scelta, versi le sanzioni, fermo rimanendo, in caso di resipiscenza, il rimborso delle sole maggiori imposte, carenti del presupposto impositivo.

La rimborsabilità delle somme a seguito di ravvedimento, come sopra delineata, potrebbe rappresentare uno spunto di riflessione sulle scelte strategiche da attuare alla luce del mutato assetto procedimentale pre-processuale, che prevede la coesistenza di diversi istituti.

Ci si riferisce, ad esempio, all’ipotesi per cui, in corso di verifica, si effettui ravvedimento su alcuni dei rilievi contestati, formulando in un successivo momento istanza di rimborso delle maggiori imposte, se ne sussistono i presupposti. Ciò consentirebbe di circoscrivere la pretesa, in modo da poter alternativamente: i) fruire dei benefici previsti dal reintrodotto istituto di adesione ai p.v.c. (art. 5-quater, D. Lgs. n. 218/1997), posto che lo stesso investe l’intero contenuto sostanziale del verbale, ii) circoscrivere il perimetro dell’instaurando contraddittorio sul successivo “schema d’atto”.

D’altra parte, per controbilanciare la libertà di scelta del contribuente e le strategie di gestione del rischio fiscale attuate attraverso l’istituto del ravvedimento e la successiva istanza di rimborso, de iure condito, è contemplata la norma (art. 1, co. 640, L. n. 190/2014), come sopra si è fatto cenno, che prevede lo slittamento in avanti del dies a quo del termine per l’accertamento, nel caso di dichiarazione integrativa, sia essa presentata nei casi previsti dagli artt. 2, comma 8, e 8, comma 6-bis, D.p.r. n. 322/1998, ovvero a seguito di sanatoria, ex art. 13, D. Lgs. n. 472/1997.

Ciò, garantendo all’Erario di non vedersi inibita l’attività accertativa per l’intervento di preclusioni temporali, dovrebbe fugare il rischio paventato da coloro che sostengono l’irretrattabilità del ravvedimento, ritenendo che diversamente si andrebbe a minare la stabilità dei rapporti con l’amministrazione finanziaria e giustificando l’interpretazione rigida che vuole irripetibili le somme versate a seguito di ravvedimento se non in ipotesi limitatissime.


[1] Sebbene la norma, (art. 13, co. 1, D. Lgs. n. 472/1997) esordisca affermando che “La sanzione è ridotta, sempreché la violazione non sia stata già constatata e comunque non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l’autore o i soggetti solidalmente obbligati, abbiano avuto formale conoscenza”, al successivo co. 1-ter, inserito ad opera dell’art. 1, comma 637, lett. b), n. 2), L. 23.12.2014 n. 190, pubblicata in G.U. 29.12.2014 n. 300, S.O. n. 99, in vigore dall’1.1.2015, precisa che “Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo, per i tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate non opera la preclusione di cui al comma 1, primo periodo, salva la notifica degli atti di liquidazione e di accertamento, comprese le comunicazioni recanti le somme dovute ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni”.

[2] In dottrina (A. Giovannini, Il nuovo ravvedimento operoso: il “Fisco amico” e il “condono permanente”, Il Fisco 4/2015, pag. 315) si è già da tempo evidenziato come il ravvedimento abbia perso la sua spontaneità, assurgendo a una sorta di “sanatoria permanente”.

[3] Come infatti osservato, “… il contribuente sa che, anche se scoperto, potrà contare sulla possibilità di regolarizzare le violazioni con penalità ridotte” (D. Deotto – L. Lovecchio “Ravvedimento, nuovo software e sconti da hoc per lo schema d’atto”, Il Sole 24 Ore 4 marzo 2024, pag. 5).

[4] Benché l’applicazione del cumulo giuridico rappresenti, se confermata, una delle modifiche più significative nell’ottica di incentivo all’utilizzo del ravvedimento, la determinazione della sanzione unica può risultare insidiosa, con tutte le criticità connesse ad eventuali errori di calcolo.

[5] Si ricorda che, con decorrenza 24.12.2019, ad opera dell’art. 39, comma 1, lett. q-bis), DL 26.10.2019 n. 124, convertito, con modificazioni, dalla L. 19.12.2019 n. 157, i reati di cui agli artt. 2 e 3 del D. Lgs. n. 74/2000 sono stati inclusi (oltre a quelli originariamente previsti dall’art. 13, co. 2 D. Lgs. n. 74/2000, di cui agli artt. 4 e 5 del medesimo decreto) tra quelli che “… non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali”.

[6] In tal senso, v. G. Melis, “Note minime su talune questioni interpretative in tema di ravvedimento operoso” in Diritto e Pratica Tributaria, n. 4, 1 luglio 2021, p. 1567 e ss., secondo cui “Solo la presenza di tali tipologie di errori, poiché idonei ad alterare la formazione della volontà del contribuente, poi manifestantesi, sul piano esterno, quale libera e spontanea scelta sull’uso del ravvedimento (implicante a sua volta il riconoscimento della violazione e della ricorrenza dei suoi presupposti), renderebbe ripetibili le sanzioni a tale titolo versate”.

[7] Il caso affrontato dalla Cassazione aveva ad oggetto una società che, avendo reso prestazioni di servizi nei confronti di un committente UE, si era inizialmente ravveduta in ragione della mancata iscrizione al VIES, pagando l’IVA, le sanzioni ridotte e gli interessi, ipotizzando (per quanto sembra emergere dalla sentenza) si trattasse di violazione sostanziale, salvo poi re melius perpensa, proporre istanza di rimborso, riconoscendo che la mancata iscrizione al VIES fosse una violazione (ratione temporis vigente) solo formale. È solo il caso di ricordare che, dal 2020, per effetto dell’introduzione della direttiva comunitaria 2018/1910/UE del 4.12.2018, l’iscrizione al VIES diviene presupposto costitutivo per il regime di non imponibilità delle cessioni intracomunitarie (art. 41, co. 2-ter, D.L. n. 331/1993).

[8] Cfr. tra le altre, Cass. 6.06.2018, 14550 e Cass. 29.10.2021, n. 30827.

[9] Cass. 15.12.2017, n. 30172 e Cass. 22.01.2013, n. 1427.

[10] v. M. Trivellin “Obbligazioni tributarie – Diritto on line (2014)” – Treccani.

[11] In dottrina, v. L. Ambrosi “Le violazioni formali e meramente formali alla luce della giurisprudenza”, Il Fisco, n. 35, 22.09.2014, p. 3457, secondo cui, pur in presenza della causa di non punibilità di cui all’art. 6, co. 5-bis, D. Lgs. n. 472/1997, “In molte ipotesi, l’Amministrazione non solo non ravvisa l’illecito come meramente formale o formale, ma come sostanziale, applicando quindi la sanzione prevista, normalmente in misura proporzionale. Proprio per tale ragione, diviene difficile tracciare un limite ben definito di ciò che può essere meramente formale, formale e sostanziale”. Sul versante della prassi amministrativa, v. Circ. Ag. Entrate 3.08.2001, n. 77 (§ 3.1), la quale, nell’individuare la nozione di “mera” violazione formale ribadisce preliminarmente che “… non sono punibili le violazioni che, oltre a non incidere sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo, non pregiudicano l’attività di controllo dell’amministrazione finanziaria. Resta, invece, punibile ogni altra violazione che sia di ostacolo all’attività di controllo”. Precisa altresì che “Ai fini della non punibilità della commessa violazione, le condizioni negative appena richiamate devono intendersi alternative e non concorrenti, con la conseguenza che non può configurarsi una violazione meramente formale ove manchi in concreto una sola di esse”. Più di recente, la stessa Agenzia delle Entrate (Circ. 15.05.2019, n. 11, § 2), nel chiarire gli aspetti della “Definizione agevolata delle irregolarità formali – Articolo 9 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119”, afferma che le violazioni formali sono quelle “… per le quali il legislatore ha previsto sanzioni amministrative pecuniarie entro limiti minimi e massimi o in misura fissa, non essendoci un omesso, tardivo o errato versamento di un tributo sul quale riproporzionare la sanzione. Tale aspetto costituisce uno dei tratti che, generalmente, consente di distinguerle dalle cd “violazioni sostanziali”. Trattasi, in ogni caso, di inosservanze di formalità ed adempimenti suscettibili di ostacolare l’attività di controllo, anche solo in via potenziale; diversamente le stesse costituirebbero violazioni “meramente formali”, per le quali l’articolo 6 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, dispone, al comma 5-bis (introdotto dall’articolo 7, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 32 del 2001), la non punibilità, trattandosi di violazioni che non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta, ovvero sul versamento del tributo e che non pregiudicano l’attività di controllo svolta dall’amministrazione finanziaria (cfr. circolare n. 77/E del 3 agosto 2001)”.

[12] G. Melis, op. ult. cit., secondo cui “… non risulta agevole comprendere quale ruolo debba giocare la natura <meramente formale> della violazione rispetto alla ripetibilità della somma e, soprattutto, come questa (natura) debba essere coordinata con la presenza dell’errore <formale, essenziale e riconoscibile> dell’altro e, per stessa affermazione della Corte, <non opposto> orientamento”.

[13] Il caso riguardava la richiesta di rimborso della Tari per gli anni dal 2014 al 2019 versata unitamente alle sanzioni in sede di ravvedimento e al silenzio-rifiuto opposto dall’amministrazione comunale. La non debenza dell’imposta rilevava per mancanza oggettiva del presupposto impositivo, stante il giudicato in tal senso formatosi sulle ulteriori annualità d’imposta.

[14] Secondo Cass. 21.12.2016 n. 26545, sopra citata “… il ravvedimento operoso ex art. 13 D Lgs. n. 472 del 1997 implica il riconoscimento della violazione e della ricorrenza dei presupposti di applicabilità della sanzione, sicché non può essere invocato per ottenere il rimborso di quanto corrisposto ai sensi dell’art. 5 D Lgs. n. 472 del 1997 o ai sensi dell’art. 10 L. n. 212 del 2000, tali disposizioni applicandosi esclusivamente nel caso di sanzioni imposte dall’amministrazione (Cass. 30 marzo 2016, n. 6108, Rv. 639432).

[15] I giudici provinciali proseguono affermando che “… appare palesemente in contrasto con i principi riguardanti l’applicazione della sanzione, che è conseguente ad una responsabilità per comportamento illegittimo del contribuente. Orbene, nel caso in oggetto, considerato che l’imposta non era dovuta in mancanza del presupposto impositivo e considerato che nessuna responsabilità di natura fiscale è ascrivibile alla ricorrente, alla stessa non poteva essere applicata alcuna sanzione”.

[16] In tal senso, v. M. Antonini – P. Piantavigna “Ravvedimento operoso: ripetibilità delle somme indebitamente versate tra violazioni sostanziali e formali”, Corriere Tributario, n. 5, 1.05.2023, p. 453 e ss.

[17] Circ. Agenzia Entrate 19.02.2015, n. 6, § 10.3.

[18] La vicenda riguardava una fondazione che si era ravveduta per un ritardato versamento di imposte. In un secondo momento, la fondazione chiedeva a rimborso di quanto versato, nel presupposto che il ritardo nel pagamento fosse dovuto ad un mancato incasso di somme da parte dell’ASL, comportamento questo incolpevole e, pertanto, non punibile.

[19] Così si esprimono D. Deotto – L. Lovecchio “Ravvedimento operoso ritrattabile solo per errore manifesto e riconoscibile”, Il Sole 24 Ore 9.05.2023, Norme e Tributi, p. 38.

[20] M. Basilavecchia Ravvedimento operoso e rimborso dell’imposta – Modulo24 Accertamento e Riscossione 29.05.2023, n. 5, pag. 96.

[21] Ci si riferisce, ad esempio, al regime di trasparenza fiscale o a quello del consolidato fiscale nazionale e mondiale. Per entrambi, l’opzione – espressamente prevista come irrevocabile – ha una durata minima di tre esercizi, tacitamente rinnovata, fatta salva specifica manifestazione di volontà di segno contrario al verificarsi di determinati eventi (v. provv. Ag. Entrate 161213 del 17.12.2015). Venuta meno l’opzione, il contribuente dovrà modificare i criteri per la determinazione del reddito imponibile.

[22] Ci si riferisce, ad esempio, a quanto stabilito dall’art. 1, co. 177, Legge di bilancio 2023 a proposito del “ravvedimento speciale”, per il quale è espressamente previsto il divieto di ripetibilità delle somme versate attraverso il ravvedimento ordinario, al solo scopo di ottenere uno sconto sanzionatorio più sostanzioso. Esclusa tale fattispecie, in presenza dei presupposti per il rimborso, non può essere disconosciuta la ripetibilità di quanto indebitamente versato a seguito di ravvedimento. Peraltro, il ravvedimento speciale è tale in quanto deroga alla disciplina del ravvedimento ordinario, sicché la sua disciplina non è idonea ad incidere sulla disciplina “generale”.

[23] v. M. Basilavecchia, ult. op. cit. 6 mag 2024

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