SUL NEO-INTRODOTTO REGIME DELLE INVALIDITÀ DEGLI ATTI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA – SPUNTI DI RIFLESSIONE PER UN RIPENSAMENTO DEL COMPLESSIVO ASSETTO DEL PROCEDIMENTO E DEL PROCESSO TRIBUTARIO, di avv. Vincenzo Fusco
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SUL NEO-INTRODOTTO REGIME DELLE INVALIDITÀ DEGLI ATTI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA – SPUNTI DI RIFLESSIONE PER UN RIPENSAMENTO DEL COMPLESSIVO ASSETTO DEL PROCEDIMENTO E DEL PROCESSO TRIBUTARIO, di avv. Vincenzo Fusco
Sul neo-introdotto regime delle invalidità degli atti dell’amministrazione finanziaria – Spunti di riflessione per un ripensamento del complessivo assetto del procedimento e del processo tributario
di avv. Vincenzo Fusco
§ § §
1. Premessa
Si intende offrire un contributo alla sistematizzazione del regime delle invalidità degli atti dell’amministrazione finanziaria, alla luce dei recenti impianti normativi apportati allo Statuto dei diritti del contribuente, contributo che, in maniera condensata, è stato proposto nel corso del Convegno indetto dalla Camera Tributaria di Bergamo, in collaborazione con l’Università di Bergamo, svoltosi lo scorso 16 aprile 2025.
L’intento precipuo di questo contributo, dopo un rapido excursus sul dato testuale delle nuove norme e sulle questioni che con esse si apprestano ad emergere, è quello di offrire una Weltanschauung, nel tentativo di verificare, ponendosi da un angolo visuale più “alto”, come si collochi questo nuovo regime delle invalidità nel rinnovato sistema procedimentale e processuale tributario e quali effetti esso porti con sé.
Lo scopo dichiarato di questo scritto impone doverosamente una precisazione metodologica: quando parlo di angolo visuale più “alto”, non intendo immodestamente ergermi al ruolo di pensatore con la velleità di elaborare teorie giusfilosofiche, quanto invece, in modo più prosaico, quello di elevare topograficamente lo sguardo, in modo da abbracciare nel campo visivo uno scenario più ampio, necessario per valutare l’impatto d’insieme della nuova disciplina.ow working ienamente adempiuto alle indicazioni impartitegli nella delega, ma lo abbia fatto, a mio modo di vedere – anticipando in un certo senso le riflessioni che intendo sviluppare appresso – in modo particolarmente innovativo, dando al contempo una solidità e una autonomia al sistema, tale da garantire quella adeguata certezza giuridica che in passato è costantemente mancata.
Prima di tale intervento riformatore, infatti, regnava un certo tentennamento circa la disciplina delle invalidità degli atti dell’amministrazione finanziaria, tale da indurre la giurisprudenza a coniare una congerie di definizioni volte ad individuare, a seconda dei casi, le varie forme di patologie degli atti, comprendenti, oltre alle tradizionali categorie della “nullità” e della “annullabilità”, quella della “nullità assoluta”, della “nullità radicale”, della “nullità insanabile”, contrapposta ad una non meglio precisata “nullità sanabile”, giungendo financo alla “inesistenza”1.
Lo scenario, peraltro, si aggravava con l’introduzione, nel 2005, del regime delle invalidità nel procedimento amministrativo – nella specie stabilite dagli artt. 21-septies e 21-octies della L. n. 241/1990 – che in passato ha spesso rappresentato per gli interpreti in ambito tributario, il principale parametro di riferimento, nel tentativo di mutuarne la disciplina, pur partendo da un dato ontologico e teleologico diverso, posto che le fattispecie regolate dalla L. n. 241/1990 attengono ad atti della pubblica amministrazione dalla natura vincolata, natura questa non condivisa con gli atti dell’amministrazione finanziaria23.
Da questo punto di vista, è emblematico il tentativo della giurisprudenza tributaria di estendere la regola normativa – mutuata, per l’appunto, dalla disciplina amministrativistica – che sancisce il “depotenziamento” (o, come anche definita la “dequotazione”4) dei vizi formali e procedimentali non in grado di incidere sul contenuto vincolato del provvedimento, giungendo a criticabili soluzioni interpretative.5
Mi sembra altresì opportuno fare solo cenno all’atteggiamento della Suprema Corte che, in mancanza di un’organica disciplina positiva delle invalidità, aveva elaborato il principio di conversione delle nullità in mezzi di gravame, secondo cui la contestazione della pretesa fiscale, benché legislativamente nominata come “nullità”, è suscettibile di essere avanzata solo attraverso specifici motivi di impugnazione dell’atto che la esprime6, stante la struttura eminentemente impugnatoria del processo tributario.
Tornando al tema di stretta indagine, con la nuova disciplina sulle invalidità degli atti dell’amministrazione finanziaria, viene ora meno quell’aura di incertezza che aleggiava prima, al punto da spingere parte della dottrina7 ad affermare che si è chiusa la stagione degli esercizi esegetici.
Più precisamente, condividendo il pensiero di altra parte della dottrina8, sarebbe il caso di dire che si è chiusa “una” stagione di esercizi esegetici e se ne apre una nuova, in considerazione del complessivamente rinnovato assetto della disciplina riguardante non solo il procedimento impositivo, ma anche quello del processo e delle sanzioni tributarie.
Da un primo approccio sistematico, si osserva come il legislatore si sia occupato della disciplina delle invalidità su più fronti, distinguendo quella riguardante gli atti che, in via di prima approssimazione, potremmo definire di natura provvedimentale, quella riferita alla c.d. attività istruttoria e, infine, stabilendo uno specifico regime di invalidità riguardanti le notificazioni.
Lasciando da parte gli aspetti riguardanti i vizi dell’attività istruttoria (art. 7-quinquies) e quelli delle notificazioni (art. 7-sexies), sui quali pure potrebbero aprirsi interessanti fronti di dibattito (ad es., basti pensare, rispettivamente, ai confini del regime di inutilizzabilità degli elementi di prova alla luce, tra l’altro, della recente sentenza della CEDU sul caso Italgomme9, in relazione agli accessi dei verificatori preso la sede aziendale o, per quanto riguarda il regime di invalidità delle notifiche, al definitivo superamento della c.d. “supersolidarietà”, ponendo anche qui fine ad un acceso dibattito giurisprudenziale che in passato ha contribuito ad ingenerare diversi equivoci10), cercherò di concentrare le mie riflessioni sulle patologie degli atti dell’amministrazione finanziaria, declinate, secondo la struttura che il legislatore delegato ha inteso stabilire, su tre livelli, a ciascuno dei quali viene dedicato un articolo e, precisamente, l’art. 7-bis sulla annullabilità, l’art. 7-ter, sulla nullità e l’art. 7-quater sulla irregolarità.
Trattasi di un corpus normativo che risulta sistematicamente autonomo e indipendente, tale da non lasciare interstizi da colmare in ragione di potenziali vuoti normativi, di talché l’ambito delle invalidità così come congegnato risulta specularmente sovrapponibile a quello della validità11.
Ciò vuol dire che, in una visione d’insieme, o l’atto dell’amministrazione finanziaria è valido o è affetto da invalidità, declinata unicamente nei termini stabiliti dalla neo-introdotta disciplina statutaria: tertium non datur.
In primissima battuta, ciò che emerge a livello sistematico è la volontà del legislatore di inserire questo nuovo regime delle invalidità nell’ambito dello Statuto, con il chiaro intento di stabilire una disciplina sulle invalidità che si pone come norma generale preordinata assiologicamente alle regole previste nella disciplina dei singoli tributi, valevole quindi, oltre che per tutti gli atti dell’amministrazione finanziaria, anche per quelli delle Regioni e degli enti locali, che nel disciplinare i procedimenti di loro competenza sono tenuti ad offrire al contribuente un livello di tutela non inferiore a quello previsto per le amministrazioni statali (si vedano i nuovi commi 3-bis e 3-ter innestati nell’art. 1 dello Statuto).
L’inserimento delle norme sulle invalidità all’interno dello Statuto ha anche un altro, più profondo, ruolo, rappresentando un paradigma cui l’amministrazione deve adeguarsi nell’informare il proprio agire, nel rispetto dei principi di buona fede e imparzialità, ma che, nondimeno, assurge a parametro di condotta per ogni soggetto coinvolto nel rapporto tributario, quindi, in primis, per il contribuente, per la stessa amministrazione finanziaria, secondo le richiamate intenzioni del legislatore manifestate nel citato comma 3-ter dell’art. 1, e financo – come cercherò di argomentare – lo stesso giudice tributario.
La seconda riflessione, a livello d’insieme, è che la disciplina appare strutturata sulla falsariga delle invalidità previste nel procedimento amministrativo, come espressamente indicato nella Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, pur mantenendo una sua specifica connotazione, che le consente di emanciparsi definitivamente da quest’ultimo e di trovare una sua specifica identità nel panorama delle branche del diritto, evitando da ora in poi di dover far ricorso all’analogia.
Tuttavia, la circostanza per cui la matrice della nuova disciplina sia di stampo amministrativistico lascia il segno e porta con sé, come vedremo, rilevanti conseguenze.
Ad ogni modo, nel segno della emancipazione delle invalidità coniate in ambito tributario rispetto a quelle previste nel procedimento amministrativo, è emblematica la circostanza per cui, tra le cause di nullità, oltre alla carenza assoluta di attribuzione, alla violazione o elusione del giudicato e ad ogni altra fattispecie normativamente prevista, analogamente a quanto disciplinato in ambito amministrativo, non sia stata invece riproposta la mancanza degli elementi essenziali dell’atto12, ottenendo – ad avviso di chi scrive, meritoriamente – l’effetto per cui risulta irrilevante verificare, all’interno dell’atto quali siano gli elementi connaturati da essenzialità tali da infirmare la validità dell’atto, tali da determinarne la nullità.
Quindi, nel procedimento tributario, la mancanza di qualsiasi elemento dell’atto – fatta espressamente eccezione per le cc.dd. informazioni defensionali di cui all’art. 7, co. 2 dello Statuto, la cui mancata o erronea indicazione comporta la mera irregolarità, ai sensi dell’art. 7-quater – è d’ora in poi derubricata, ricadendo sempre nell’alveo della annullabilità.
È altresì significativo che, in ambito tributario, non sia stata riproposta la tradizionale causa invalidante presente nel settore amministrativo dell’eccesso di potere, denotando una ancor più significativa distinzione tra i due ambiti giuridici.
Se è vero, infatti, che, secondo il più accreditato indirizzo della dottrina amministrativistica13, il vizio in questione è riferito al potere esercitato dalla pubblica amministrazione, esso non può essere circoscritto e limitato ad un qualche elemento interno del provvedimento, aleggiando piuttosto in un’area esterna e più ampia rispetto ad esso, di talché l’eccesso di potere andrebbe qualificato come vizio della funzione, intendendosi per tale il potere della pubblica amministrazione di declinarsi in atto.
Trattasi, quindi, del potere discrezionale della pubblica amministrazione esercitato nei confronti del consociato in violazione di principi di giustizia sostanziale (manifesta ingiustizia e disparità di trattamento), di ragionevolezza (illogicità e contraddittorietà) o di organizzazione amministrativa (violazione di circolari e deviazioni della prassi), involgendo evidentemente ambiti di azione legati all’espressione di interessi legittimi.
Il procedimento tributario, invece, è caratterizzato dalla peculiarità per cui il rapporto tra amministrazione finanziaria e contribuente “… afferisce a diritti soggettivi (e non interessi legittimi) e che trova il suo fondamento nell’articolo 53 della Costituzione, sia in senso positivo (obbligo di pagare le imposte previste dalla legge), sia in senso negativo (divieto di pagare imposte non dovute in base alla legge)”14.
Beninteso, ciò non vuol dire che, nel proporre ricorso dinanzi agli organi di giurisdizione tributaria, non si possa far valere, a motivo di invalidità dell’atto impugnato, argomentazioni riconducibili a principi di giustizia sostanziale, ragionevolezza o organizzazione amministrativa, né tantomeno che, per gli atti di applicazione di un tributo, il sistema riservi meno tutele rispetto alla generalità degli atti amministrativi; vuol dire, piuttosto, come acutamente osservato in dottrina15, che il sistema delle invalidità è strutturato in maniera diversa.
Ne consegue, a mio modo di vedere, che le argomentazioni sopra riportate, facenti capo al tradizionale vizio di eccesso di potere, calate in ambito tributario vanno sempre ricondotte nell’alveo di quel sistema chiuso e tipizzato di invalidità ora espressamente previste, avuto riguardo alla tutela dei diritti soggettivi del contribuente nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
L’eccesso di potere, in sé considerato come specifico vizio del provvedimento amministrativo, quindi, non può più trovare spazio in ambito tributario, sicché esso non può più essere invocato dinanzi agli organi di giurisdizione tributaria dal contribuente a motivo del proprio interesse ad agire che qui si traduce nell’interesse alla rimozione del provvedimento tributario o alla sua rimodulazione; una tale forma di invalidità, intesa come violazione di interessi legittimi, andrà al più posta al vaglio del giudice amministrativo.
3. Cenni sul regime giuridico delle diverse tipologie di invalidità inserite nello Statuto del contribuente
La pietra angolare su cui è strutturato questo corpus normativo è rappresentato dalla nozione di annullabilità, patologia attorno alla quale ruotano le altre o, per meglio dire, i cui confini di operatività sono desumibili mediante un’operazione di sottrazione rispetto alle altre invalidità, di talché la sua area di applicabilità risulta determinata in via residuale; in altre parole, la patologia dell’atto rientra nella sfera di annullabilità se non risulta annoverabile né in fattispecie di nullità, né in quelle di irregolarità.
La definizione normativa di annullabilità, infatti, è molto ampia e generica, giacché è annullabile l’atto emesso in violazione di legge16.
Benché la disposizione rechi una elencazione di norme la cui violazione genera annullabilità, trattasi evidentemente – considerato il suo tenore letterale – di elencazione meramente esemplificativa, volta probabilmente ad esplicitare lacune delle tipologie di norme la cui violazione rende annullabile il provvedimento tributario e a delimitare dall’esterno l’area confinante con la mera irregolarità17.
In realtà, come risulta per tabulas, gli estremi di tale violazione di legge sono desumibili, da un lato, attraverso la nozione di nullità e dal lato opposto da quella di irregolarità.
In relazione alla prima, eccettuate le casistiche di carenza assoluta di attribuzione (riconducibile, per lo più, a meri casi di scuola) e di violazione o elusione di giudicato, le violazioni di legge che sanciscono la nullità dell’atto devono essere espressamente designate dal legislatore come generative del vizio di nullità, successivamente al 18 gennaio 2024, data di entrata in vigore della novella.
Nonostante tale scelta legislativa imponga “un’indagine storica” sulla data di entrata in vigore delle singole norme che sanciscono espressamente la nullità18, essa risulta coerente con la ratio di fondo del sistema, volto a stabilire una netta linea di demarcazione tra il previgente sistema e quello attuale, con conseguente definizione delle invalidità: nel previgente regime quelle che erano definite come nullità rientrano oggi nell’ambito delle annullabilità e del rispettivo regime, specie per quel che attiene alle modalità di loro rilevazione19.
Quel che, invece, appare criticabile, come denunziato dalla dottrina20, è che il legislatore abbia indistintamente derubricato a fattispecie di annullabilità tutte le ipotesi di nullità “nominate” precedentemente alla riforma, benché alcune di esse riguardino violazioni dell’atto impositivo particolarmente gravi; di qui l’auspicio che, in successivi interventi normativi, passando in rassegna le vecchie fattispecie positivizzate di nullità, il legislatore riabiliti quelle riferite a violazioni di tenore più significativo.
Quanto alla seconda, la violazione di legge viene derubricata a mera irregolarità, laddove essa riguardi la mancata o erronea indicazione delle cc.dd. informazioni defensionali, di cui all’art. 7, co. 2; specularmente, se la mancata o erronea indicazioni di siffatte informazioni non ha conseguenze invalidanti sull’atto tributario, tutto ciò che esula da esse rappresenta situazione per la quale la violazione di legge – quale difformità dell’atto rispetto al paradigma normativo – costituisce vizio invalidante.
Il legislatore si è poi premurato di stabilire il rispettivo regime giuridico, sancendo, per la nullità, la possibilità di essere fatta valere sia in sede amministrativa, sia in quella giudiziaria, precisando che in tale secondo caso, possa essere rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio e consenta la ripetizione di quanto medio tempore versato, nei limiti della prescrizione del credito; per l’annullabilità, invece, a cui si affianca, a mo’ di endiadi, l’altra figura della infondatezza, sulla quale tornerò più avanti, è prevista la deducibilità in sede di ricorso introduttivo del giudizio , a pena di decadenza.
4. Breve rimando ad alcune questioni esegetiche con impatto sulla applicazione pratica della disciplina delle invalidità
Definito a grandi linee il dato positivo, dando per implicita la conoscenza del complessivo tessuto normativo, intendo fare cenno a quelle che, a mio modo di vedere, rappresentano le questioni esegetiche desumibili dal tenore letterale delle disposizioni in commenti, che in un certo senso possono avere un impatto sulla applicazione pratica della disciplina.
Una prima questione riguarda la circostanza per cui il regime dell’annullabilità è previsto, testualmente, per “gli atti dell’amministrazione finanziaria impugnabili dinanzi agli organi di giurisdizione tributaria”, mentre, nel caso della nullità, si fa riferimento alla più generica categoria degli “atti dell’amministrazione finanziaria”, lasciando supporre, di primo acchito, che il regime delle nullità trovi applicazione anche per gli atti endo-procedimentali, cioè quelli non suscettibili di impugnazione dinanzi al giudice tributario.
La suggestione potrebbe essere avvalorata dalla circostanza per cui, nel caso della nullità, a differenza dell’annullabilità, è prevista la sua rilevabilità anche in sede amministrativa, con ciò lasciando supporre che non sia necessario attendere la notifica di un atto impugnabile per denunziare dinanzi al giudice tributario la più grave forma di invalidità.
Sul punto è diffuso in dottrina il pensiero secondo cui la tematica delle invalidità riguarda gli atti aventi natura provvedimentale, nonostante la generica terminologia utilizzata dal legislatore delegato, che sembra quasi soffrire una certa “timidezza” nell’utilizzare il termine “provvedimento”21.
Si deve giungere, quindi, alla conclusione per cui, anche nel caso della nullità, gli atti suscettibili di invalidazione siano quelli di natura provvedimentale, cioè quelli capaci di incidere sulla sfera giuridica ed economica del contribuente.
Questione ben più significativa è quella, per la verità, non nuova, ma senz’altro rinnovata dalla riformata fattispecie invalidante, riguardante le caratteristiche del giudicato, tali da determinare la nullità dell’atto.
Riemerge, sotto questo aspetto, il dibattito sulla efficacia riflessa del giudicato o giudicato esterno e il connesso concetto di autonomia dei periodi d’imposta.
Il problema sta nell’individuare entro quali limiti il giudicato esterno possa spiegare i propri effetti, in un ambito quale quello tributario, connotato dal principio di autonomia dei periodi d’imposta e della natura periodica del tributo.
In altri termini, ci si domanda se il giudicato raggiunto con riferimento ad un periodo d’imposta possa coprire fattispecie che involgano i medesimi soggetti ma che si riferiscano a un diverso periodo d’imposta.
Ritengo che la soluzione debba passare attraverso una attenta valutazione su quali siano gli elementi coperti da giudicato, e cioè se si tratti di elementi legati, per l’appunto, alla periodicità dell’imposta, nel qual caso probabilmente il giudicato troverebbe un suo limite, rispetto ad elementi caratterizzati da un’efficacia pluriennale o comunque con effetti durevoli nel tempo, laddove, viceversa, dovrebbe ammettersi un effetto estensivo del giudicato.
Per la verità, è consolidato l’indirizzo presso la Suprema Corte autorevolmente pronunciatasi a Sezioni Unite già nel 2006, secondo cui “… si deve escludere che il giudicato (salvo che il giudizio non si sia risolto nell’annullamento dell’atto per vizi formali o per vizio di motivazione) esaurisca i propri effetti nel limitato perimetro del giudizio in esito al quale si è formato e se ne deve ammettere una potenziale capacità espansiva in un altro giudizio tra le stesse parti, secondo regole non dissimili – nei limiti della <specificità tributaria> – da quelle che disciplinano l’efficacia del <giudicato esterno> nel processo civile” (Cass. civ., Sez. Unite, Sent., data ud. 04/05/2006 – 16/06/2006, n. 13916)”.
Di tenore analogo è il più recente arresto della stessa Suprema Corte22, la quale, facendo leva sui principi di certezza del diritto e di stabilità nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria, ha confermato l’efficacia espansiva del giudicato tributario in altri giudizi tra le stesse parti, secondo le stesse regole che disciplinano, nel processo civile, il giudicato esterno.
Innestandosi nel solco già tracciato, la Suprema Corte23 ha, infine, avuto modo di statuire che laddove due giudizi tra le stesse parti vertano sul medesimo rapporto giuridico, la sentenza passata in giudicato in uno di essi preclude il riesame, nel giudizio successivo, delle medesime questioni di fatto o di diritto già accertate in modo definitivo, purché esse costituiscano un punto fondamentale comune ad entrambe le controversie e rappresentino la premessa logica necessaria della decisione. In ambito tributario, tale efficacia espansiva del giudicato non è esclusa dal principio di autonomia dei periodi d’imposta, poiché quest’ultimo non si applica agli elementi strutturali della fattispecie impositiva che si estendono su più annualità e presentano carattere tendenzialmente stabile (come, ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una disciplina fiscale)24.
In questi casi, il giudicato assume una funzione regolatrice, vincolando tanto l’Amministrazione quanto il contribuente nei successivi accertamenti, in coerenza con la natura sostitutiva della pronuncia giurisdizionale rispetto all’atto impugnato e con i principi di ragionevolezza ed effettività della tutela giurisdizionale.
Nella giurisprudenza di merito si veda, in senso conforme, Comm. Trib. Reg. per la Basilicata, sent. dell’8.04.2019, n. 165/2 e Comm. Trib. Reg. per la Campania, sent. del 30.05.2019, n. 4776.
Il tutto, beninteso, avuto riguardo non solo alle statuizioni per così dire esplicite, ma anche a tutta quella amplissima congerie di fenomeni processuali sui quali incombono gli effetti di cui agli artt. 324 c.p.c. e 2909 cod. civ.
La Suprema Corte25, ad esempio, ha fatto proprio, in ambito tributario, il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, cioè non soltanto le ragioni giuridiche fatte espressamente valere, in via di azione o di eccezione, nel medesimo giudizio (giudicato esplicito), ma anche tutte quelle altre che, se pure non specificamente dedotte o enunciate, costituiscono tuttavia, premesse necessarie della pretesa e dell’accertamento relativo, in quanto si pongono come precedenti logici essenziali e indefettibili della decisione, così avendosi il giudicato implicito.
Altro tema particolarmente spinoso, sempre a proposito della nullità, attiene al regime di rilevazione anche in sede amministrativa.
Ci si domanda, infatti, quali possano essere gli strumenti attraverso i quali è possibile far rilevare siffatta invalidità in ambito amministrativo, avuto riguardo alla circostanza per cui le tipiche attività di impulso da parte del contribuente nei confronti dell’amministrazione sono rappresentati o dall’istanza di rimborso o dall’istanza di autotutela.
Con particolare riferimento a quest’ultima, sembrerebbe lecito, a questo punto, chiedersi se attraverso l’istanza di autotutela possano essere fatte valere cause di nullità o, quantomeno, se le cause di nullità sollevabili con istanza di autotutela, nella sua connotazione obbligatoria, siano da ricondurre ad una delle fattispecie tassative elencate nell’art. 10-quater.
Tale seconda soluzione, benché più aderente al dato letterale della norma, sembrerebbe rappresentare una forte limitazione per l’istituto. D’altra parte, come insegnava Carnelutti, essendo la nullità una soluzione costosa del problema del vizio, l’ordinamento cerca il più possibile di evitarla se non vi è necessariamente obbligato.
Si dovrebbe, in altri termini, giungere ad ammettere che la causa di nullità, per essere rilevabile in sede amministrativa, attraverso l’istanza di autotutela, debba necessariamente ricadere in una delle ipotesi di “manifesta illegittimità dell’atto o dell’imposizione” stabilite dal già citato art. 10-quater26.
Proseguendo nel ragionamento, posto che i vizi di nullità sono connotati da particolare gravità, il cui apprezzamento debba emergere icto oculi, ovvero non presuppongano la soluzione di questioni interpretative obiettivamente incerte, è ipotizzabile che le fattispecie di nullità declinate come “violazione o elusione di giudicato” o gli altri vizi di nullità “nominati”, possano rientrare nei casi di autotutela per “errore logico”, il quale, benché non espressamente contemplato dall’art. 10-quater, può farsi rientrare nella più ampia fattispecie dell’errore sul presupposto d’imposta27.
Ultima questione – intesa solo in senso diacronico, essendo a mio avviso quella invece sistematicamente più rilevante – è quella di fornire un’identità ontologia e teleologica al termine “infondatezza”, enunciato nel secondo comma dell’art. 7-bis, i cui motivi, come visto, assieme a quelli di annullabilità devono essere dedotti, a pena di decadenza, nel ricorso introduttivo del giudizio tributario.
Il primo quesito da risolvere (a condizione di riconoscerne una sua utilità a livello sistematico) è quello di dare una definizione di “infondatezza”, visto che il legislatore, a differenza del complementare lemma di “annullabilità” non si preoccupa di fornire una nozione.
Per la verità, una parte della dottrina si è posta l’interrogativo, al quale le risposte sono state variamente articolate, ma tutte convergono nell’individuare la matrice o, quantomeno, una delle matrici nella formazione della prova dell’atto impositivo e del relativo regime processuale28.
La soluzione che ritengo più accreditata è quella per cui l’infondatezza troverebbe la sua connotazione ontologica nei vizi attinenti al merito della pretesa, coinvolgendo il rapporto giuridico d’imposta e la sua esatta determinazione: da questo punto di vista, il vizio di infondatezza assume una natura qualitativamente distinta rispetto alla mera violazione di norme procedurali o formali, ponendosi su un piano più profondo, che investe la verità e correttezza della pretesa tributaria.
Le cause di annullabilità, propriamente dette, atterrebbero invece alle violazioni di legge riguardanti il procedimento che conduce a formulare la pretesa impositiva. Di ciò ne sarebbe conferma il fatto che nel comma 1 dell’art. 7-bis, il legislatore si premura di specificare che nell’ambito dell’annullabilità rientrano le violazioni di legge, comprese quelle riguardanti la competenza, il procedimento, la partecipazione del contribuente e, in genere, la validità degli atti.
Il secondo quesito, complementare al primo, è quello di verificare se la distinzione tra annullabilità e infondatezza ha ricadute sul piano pratico o si rivela un ozioso esercizio esegetico, avuto riguardo al fatto che il legislatore del secondo comma dell’art. 7-bis parifica, sul piano del regime giuridico, entrambe le fattispecie di annullabilità e di infondatezza.
In questo senso, sono dell’avviso che il vizio di infondatezza abbia una sua autonomia rispetto a quello di annullabilità, autonomia che si manifesta non solo nelle conseguenze processuali, ma anzitutto nelle rispettive cause giustificative. Mentre, infatti, l’annullabilità si fonda sulla violazione di regole formali o procedurali (come, ad esempio, la motivazione carente o la violazione del contraddittorio), l’infondatezza richiede un esame pienamente sostanziale dell’atto, comportando una valutazione diretta del rapporto tributario sottostante: la pretesa è infondata quando non trova adeguato fondamento normativo, fattuale o logico, in tutto o in parte.
È proprio questa esigenza di un’indagine sul merito che impedisce al giudice tributario di pronunciare sull’infondatezza in presenza esclusivamente di vizi meramente formali dedotti dal ricorrente: in tali casi, la pronuncia giudiziale deve arrestarsi alla valutazione circa l’annullamento dell’atto, senza potersi spingere a una valutazione del quantum debeatur.
Viceversa, sempre sotto il profilo processuale, le conseguenze dell’infondatezza si pongono su un piano differente: laddove il ricorrente deduca motivi di infondatezza, sia pur solo in parte, dell’atto impugnato, il giudice tributario non può limitarsi ad annullarlo, ma ha il dovere di valutare la sua riforma nel merito, determinando in modo puntuale l’ammontare corretto della pretesa erariale. Questo potere-dovere, che trova fondamento nell’art. 7-bis dello Statuto e il suo antecedente logico-giuridico nell’art. 7 dello stesso Statuto, nella parte in cui specifica come debbano essere motivati gli atti impositivi, è confermato dall’art. 36, co. 2, n. 4), D. Lgs. n. 546/1992, laddove impone (“la sentenza deve contenere”) al giudice di esporre i motivi in fatto e diritto di accoglimento o di rigetto, riguardanti partitamente le “questioni di merito” e le “questioni attinenti ai vizi di annullabilità o di nullità dell’atto”, norma alla luce della quale appare sempre meno sostenibile una concezione unitaria della domanda nel processo tributario.
A condizione di non voler sostenere strenuamente una rigida posizione dogmatica di matrice costitutivista (a mio modo di vedere, ad oggi non più ammissibile), in ragione della quale il processo tributario avrebbe ad oggetto una sola domanda di annullamento rispetto alla quale i motivi di ricorso svolgono solo il ruolo di questioni, il ragionamento espresso postula, infatti, la necessità di distinguere diverse domande in ragione delle diverse questioni sollevate, ciascuna delle quali identificata da una o più disposizioni di legge, quale presupposto logico-giuridico di ogni singolo motivo di ricorso.
In virtù di quanto sin qui osservato, d’ora innanzi la doglianza portata al vaglio del giudice tributario dal contribuente che impugna l’atto dell’amministrazione finanziaria andrà perciò declinata secondo una distinzione strutturale tra le diverse domande processuali, nel convincimento che le citate questioni di nullità, di annullabilità e di merito non sono semplici argomentazioni a sostegno di un’unica domanda, bensì espressioni di autonome domande fondate su diversi “sottoinsiemi giuridicamente omogenei” di fatti29.
Essa, pertanto, si svilupperà prioritariamente in termini di violazione di legge, quale tipica azione a carattere demolitorio, volta alla richiesta di declaratoria di annullabilità o, nei casi nominalmente previsti post 18 gennaio 2024, di nullità (oltre ai casi di violazione o elusione del giudicato e di difetto assoluto di attribuzione).
Eventualmente o subordinatamente, andranno poi esposte le questioni di merito, per le quali il giudice è chiamato ad effettuare una valutazione sulla tenuta della pretesa, provvedendo, se del caso, a riformarla, nel rispetto del principio dispositivo, cui il processo tributario è chiaramente informato, e del limite sancito dall’art. 35, comma 3, ultimo periodo, del D. Lgs. n. 546/1992, che vieta al giudice di emettere sentenze parziali sull’an debeatur o condanne generiche sul quantum 30, preservando così la coerenza e l’unitarietà della pronuncia tributaria.
Calato nell’ambito delle questioni di merito, il vizio di infondatezza assume allora una valenza costruttiva di stampo tendenzialmente dichiarativista31 e non meramente demolitoria: esso impone al giudice, ove specificamente dedotti motivi di infondatezza, di rimodulare la pretesa fiscale, realizzando una funzione di giustizia sostanziale che trascende il modello rigidamente cassatorio, insito nei motivi di annullabilità propriamente detta o di nullità.
Ulteriore questione che si pone nell’attuazione concreta di questo nuovo assetto e in considerazione della ricostruzione pluralistica e non rigidamente dogmatica di cui si è appena fatta menzione è quella del cumulo di domande – formali e sostanziali – nel processo tributario.
Da questo punto di vista, l’ambito di indagine è quello per cui si richiede al contribuente di precisare espressamente l’ordo quaestionum, ovvero l’ordine logico e processuale con cui intende sottoporre all’esame del giudice i diversi motivi di impugnazione, sulla base del proprio interesse concreto.
L’indagine ha una sua dignità nell’ottica di valutare l’attività del giudice e gli strumenti eventualmente azionabili per poterla criticare.
Più precisamente, l’analisi andrebbe orientata ad individuare i criteri in base ai quali, all’interno della pronuncia giurisdizionale, sia possibile configurare un fenomeno di assorbimento, di giudicato implicito ovvero, nel rispetto dell’obbligo di completezza della sentenza, una violazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c. suscettibile di essere denunciata come error in procedendo.
La questione sollevata appare di particolare complessità e coinvolge profili tecnico-scientifici di elevato livello di specializzazione, i quali, peraltro, esulano dall’ambito di trattazione del presente lavoro.
Mi limito, pertanto, a segnalarne l’esistenza, nella speranza che possa costituire spunto per ulteriori approfondimenti da parte della dottrina maggiormente qualificata in materia.
Secondo autorevole dottrina32, prendendo spunto dagli orientamenti che emergono nella giurisprudenza del processo civile e amministrativo, si giungerebbe a riconoscere un vincolo di completezza anche nella sentenza del giudice tributario, il cui primato si traduce nel divieto di assorbimento tra domande autonome, laddove proposte cumulativamente e il conseguente affievolimento del principio della ragione più liquida, che, nel processo civile, trova fondamento nell’art. 187 c.p.c., non applicabile analogicamente al processo tributario, in esso trovando applicazione i soli artt. 276 e ss., stante l’espresso richiamo espresso nell’art. 35, co. 3, D. Lgs. n. 546/1992.
Tale impostazione garantisce, da un lato, l’obbligo da parte del giudice di decidere su ciascuna domanda autonoma – di nullità, annullabilità o merito – e, dall’altro, la formazione del giudicato su ogni singolo capo, impedendo per l’effetto la riproposizione, anche in via di eccezione, delle domande non coltivate nel primo giudizio.
5. Conclusioni
La nuova disciplina delle invalidità, con il suo inserimento organico nello Statuto dei diritti del contribuente, non solo determina un importante consolidamento del sistema delle garanzie procedimentali, ma si riflette inevitabilmente anche sul piano processuale.
La conformità alla legge diventa prioritario e indefettibile parametro di riferimento dell’intero agire dell’amministrazione finanziaria; non che prima non lo fosse, con la differenza però, non di poco conto, che ora è positivizzato un criterio di portata generale e omnicomprensivo, quando invece prima il limite all’esercizio della potestà impositiva dell’amministrazione era rappresentato o da principi di ampio respiro che, tuttavia, fungevano (e tuttora fungono) da meri atti di indirizzo o da specifiche disposizioni che sancivano il regime di invalidità in relazione ad un singolo istituto o comparto impositivo.
Tale riflesso si esplicita, innanzitutto, in una ridefinizione delle tecniche di tutela, che impone all’interprete – giudice, difensore o amministrazione – una rivisitazione complessiva del quadro normativo, non più dominato da incertezze terminologiche o da approcci esegetici frammentari.
Come anticipato, al centro delle invalidità procedimentali vi è l’annullabilità, connotata essenzialmente dalla violazione di legge, intendendo per essa la difformità rispetto a qualsivoglia postulato giuridico generale ed astratto, sia esso contenuto nella Costituzione, in norme europee, in leggi ordinarie o in altri atti aventi forza di legge, in leggi regionali o, ancora, in regolamenti amministrativi.
Complementarmente, la conformità alla legge diventa il fondamentale e ineludibile parametro di valutazione dell’atto dell’amministrazione finanziaria, in specie quello di natura provvedimentale, cioè capace di incidere sulla sfera giuridica e patrimoniale del contribuente.
La misura così positivizzata è senz’altro figlia dell’enunciato deontico della certezza giuridica ed espressione di quel formalismo giuridico, quale limite invalicabile contro il debordare dell’azione amministrativa, come equilibrio tra forma e sostanza, a mo’ di sinolo aristotelico.
Il rispetto del modello legale, acquisendo quindi concreta affermazione, risulta d’ora in avanti elemento condizionante non solo per l’amministrazione finanziaria, ma per l’intera platea dei soggetti coinvolti nell’attuazione del rapporto tributario.
Si può allora concludere che la riforma, lungi dal rappresentare un mero aggiornamento terminologico o formale, si configura come un autentico cambio di paradigma, che impone a tutti gli operatori del diritto tributario – e, in particolare, al giudice – di assumere un ruolo attivo nella costruzione di un diritto processuale più coerente, razionale e garantista.
1 Sulla frammentarietà del quadro delle invalidità tributarie anteriforma, si veda A. Viotto, Il nuovo paradigma delle invalidità degli atti dell’amministrazione finanziaria, in Aa. Vv. L’attuazione della riforma tributaria (a cura di M. Logozzo), Pacini Giuridica 2024, pag. 32.
2 Si veda sul punto F. Farri, Prime riflessioni sul nuovo regime di invalidità degli atti dell’Amministrazione finanziaria, in Riv. Dir. Trib. 2024, I. pag. 215, secondo cui “La specialità della materia tributaria viene acuita e consacrata dalla novità normativa, confermando che il trapianto in materia tributaria delle categorie della Legge n. 241/1990 è un’operazione sistematicamente non sostenibile e che, con il passare degli anni, la specializzazione sotto ogni profilo del settore tributario rispetto al diritto amministrativo generale è divenuta ormai profonda e irreversibile. Val quanto dire che l’azione amministrativa, quando riguarda l’applicazione di tributi a casi concreti e personali, si basa su regole e principi speciali, spesso diversi da quelli generali del diritto amministrativo […] la specialità della materia rende vano ogni tentativo di un’applicazione pedissequa delle categorie tradizionali del diritto amministrativo al comparto tributario, con specifico riguardo agli atti comunque inseriti nelle sequenze applicative dei tributi a una fattispecie concreta, ovvero relativi a fattispecie preliminari o conseguenti comunque connesse a una vicenda impositiva concreta e personale, cui la nuova regolamentazione specificamente si riferisce”.
3 Sul contenuto non vincolato degli atti dell’amministrazione finanziaria, si veda Cass. civ. sez. trib., 11 novembre 2015, n. 23050, secondo cui, nel tentativo di calare in ambito tributario, il regime di invalidità introdotto nel procedimento amministrativo ad opera dell’art. 21-octies, L. n. 241/1990, si dovrebbe partire dal presupposto (non condiviso dalla Corte) per cui si faccia riferimento ad “… atti vincolati, qualifica che non può pienamente attagliarsi all’atto impositivo che, se certamente non dà luogo ad esercizio di discrezionalità amministrativa, tuttavia non può ritenersi vincolato nel quid (tale cioè che, se il potere viene esercitato, il contenuto dispositivo dell’atto è conoscibile ex ante, in quanto già interamente predeterminato ex lege), salvo non banalizzare tale categoria dogmatica (i cui esatti limiti sono controversi in dottrina) riducendo l’elemento di vincolatività dell’atto, quanto dell’an, al generale dovere dell’Amministrazione finanziaria di esercitare le proprie attribuzioni svolgendo i controlli, le verifiche, ispezioni accessi necessari all’accertamento dei tributi, e quanto al quid, agli effetti giuridici degli avvisi di accertamento e rettifica, quali strumenti idonei a costituire il credito erariale in presenza del presupposto impositivo: la pretesa tributaria formalizzata nell’avviso di accertamento o di rettifica, in quanto atto a contenuto variabile in relazione al diverso fatto economico presupposto, non pare quindi rispondere alla fenomenologia dell’atto a contenuto vincolato che <è configurabile allorché non soltanto la scelta dell’emanazione o meno dell’atto, ma anche il suo contenuto siano rigidamente predisposti da una norma o da altro provvedimento sovraordinato, sicché all’Amministrazione non residui alcuna facoltà di scelta tra determinazioni diverse> (cfr. Cass. Civ., Sez. U, n. 5445 del 5/4/2012; la figura dell’atto vincolato, in diritto tributario, ricorrendo piuttosto negli atti conseguenziali, meramente esecutivi, quali ad esempio la cartella e l’avviso dimora: cfr. Sez. 5, n. 3142 del 12/02/2014; n. 4516 del 21/03/2012)”.
4 In tal senso, G. Melis, Una visione d’insieme delle modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente: i principi del procedimento tributario, in Il Fisco, n. 3, 22 gennaio 2024, p. 221.
5 Si veda, ad es., Cass. 11.11.2021, n. 33287, secondo cui l’atto impositivo emesso da un Ufficio territorialmente incompetente non è viziato, precisando altresì che la censura investisse in ogni caso un vizio di legittimità “… che determina l’annullamento dell’atto stesso solo se non ricorrono le condizioni di cui all’art. 21-octies Legge 7 agosto 1990 n. 241, che può trovare applicazione in caso d’incompetenza relativa come, da ultimo, ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato sez. III, 4 settembre 2020, n. 5355)”.
6 Cass. civ. sez. trib., 9 novembre 2015, n. 22810; in senso analogo, Cass. civ. sez. trib. 5 dicembre 2014, n. 25756.
7 L’espressione è di F. Farri, Prime riflessioni sul nuovo regime di invalidità degli atti dell’Amministrazione finanziaria, in Riv. Dir. Trib. 2024, I. pag. 234
8 G. Fransoni, La nullità: appunti sull’art. 7-ter dello Statuto dei diritti del contribuente, Rass. Trib. N. 1/2025, pag. 28.
9 Corte CEDU Italgomme Pneumatici S.r.l. and Others v. Italy, n° 36617/18, 6 febbraio 2025.
10 Per una ricognizione sul tema, si veda A. Fedele Revisione della L. n. 212/2000 ed effetti degli atti dell’Amministrazione finanziaria nei confronti dei coobbligati in solido, Riv. Dir. Trib. – 8 febbraio 2024.
11 G. Fransoni, La nullità: appunti sull’art. 7-ter dello Statuto dei diritti del contribuente, Rass. Trib. N. 1/2025, pag. 31.
12 La distinzione è messa in evidenza da Assonime, Circolare n. 18 del 30 settembre 2024, pag. 35.
13 Ne dà conto F. Saitta, Il vizio dell’eccesso di potere: una prospettiva storica – Nuove Autonomie n. 3/2021, menzionando, tra le altre, la nota tesi di Feliciano Benvenuti, pag. 596.
14 Così la Relazione illustrativa al decreto legislativo n. 219/2023, pag. 10.
15 In tal senso, Farri, ult. Op. cit., pag. 216, secondo cui indice del fatto che il regime delle invalidità nel procedimento tributario sia concepito in maniera diversa rispetto a quello in ambito amministrativo è che “… a fianco del concetto di violazione di legge, compare al comma 2, dell’art. 7-ter piuttosto quello di infondatezza, non menzionato dalla legge generale sul procedimento amministrativo n. 241/1990 […] e volto semplicemente a rappresentare la non rispondenza del contenuto dell’atto alla reale situazione di fatto e alla corretta interpretazione del diritto applicabile”.
16 La Relazione illustrativa al decreto legislativo n. 219/2023, a commento del regime di annullabilità, lo definisce come “… regime <normale>, applicabile in relazione a qualunque <vizio> dell’atto, salvo quanto diversamente stabilito dalla legge (ad esempio, in presenza di <vizi> assoggettati al regime di <nullità> o a forme di <irregolarità> di cui ai i nuovi articoli 7-ter e 7-quater). Il nuovo articolo 7-bis intende fissare tale principio attraverso una formulazione ampia, tesa – di fatto – a considerare qualunque ipotesi di <violazione di legge> (formale, partecipativa e procedimentale) precisando, inoltre, come i vizi di <annullabilità> dell’atto debbano essere eccepiti con il ricorso in primo grado a pena di decadenza e non possano essere rilevati d’ufficio dal giudice, in aderenza all’attuale (unico) regime di invalidità operante nel settore tributario”.
17 Si veda in tal senso, S. Zagà, I vizi del procedimento e degli atti, in Aa. V.v, La riforma fiscale I diritti e i procedimenti, Vol. II a cura di A. Giovannini, Pacini Giuridica, 2024, pag. 91, 92, secondo cui, tra l’altro “La precisazione più significativa, senza dubbio, è quella relativa alla violazione delle regole sulla competenza, perché, superando il più recente orientamento della Corte di Cassazione [la già citata sent. n. 33287/2021], viene ripresa, pur con delle correzioni, la <vecchia> soluzione interpretativa – abbastanza condivisa in giurisprudenza e (anche dopo la novella amministrativa del 2005) in dottrina – secondo cui l’incompetenza territoriale dell’ufficio configurava un’ipotesi di carenza di potere in astratto, causando la <inesistenza> (da intendersi, però, nel significato sostanziale di nullità in senso tecnico) del provvedimento tributario. […].
Quanto poi alla precisazione normativa relativa alla violazione delle disposizioni che stabiliscono vincoli procedimentali (compresi – quale ulteriore specificazione ad abundantiam – quelli relativi alla <partecipazione del contribuente>) e requisiti formali (<sulla validità>) dei provvedimenti tributari, questa ha chiaramente la funzione di eliminare in radice il rischio di eventuali dubbi interpretativi in merito all’effetto invalidante di questa tipologia di vizi, che, pur nel silenzio normativo, sarà quello dell’annullabilità”.
18 In tal senso, Assonime, Circolare n. 18 del 30 settembre 2024, pag. 35.
19 Nella richiamata Circolare, Assonime manifesta qualche incertezza per le nullità previste per singole fattispecie disciplinate nello stesso Statuto, in specie con riferimento in tema di abuso del diritto, con riferimento al quale, l’art. 10-bis, comma 8, L. n. 212/2000 continua a prevedere la nullità dell’atto impositivo basato sull’abuso del diritto che non sia specificamente motivato in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente.
L’Associazione ipotizza che in tal caso si debba continuare a far riferimento al regime della nullità, evitando di ricorrere all’azione di derubricazione; e ciò in quanto “… in altro articolo dello Statuto, in particolare nell’art. 6, la parola <nullità> è stata espressamente modificata con <annullabilità>. In altri termini, tale distinzione può indurre a ritenere che nell’art. 10-bis, il mantenimento della parola nullità valga a significare che il legislatore, nel modificare lo Statuto, abbia inteso attribuire a tale parola il significato proprio che le nuove disposizioni introdotte nello Statuto gli attribuiscono”.
20 P. Mastellone, La prospettiva di Assonime sul regime delle invalidità degli atti tributari e dei vizi di notifica, in Il Fisco, n. 1 6 gennaio 2025, pag. 33 e ss.
21 In questo senso, S. Zagà, La nuova disciplina delle invalidità degli atti tributari, in Diritto e processo tributario n. 1/2024, pag. 36, secondo cui “… è indubitabile che il riferimento sia in tutti i casi agli <atti dell’amministrazione finanziaria> aventi natura provvedimentale, che rappresentano, cioè, delle manifestazioni di autorità in grado di incidere da soli nella sfera giuridica e patrimoniale del destinatario. Difatti a fronte di una difformità del provvedimento dal suo modello legale, sono proprio questi effetti pregiudizievoli (a carattere ablatorio) ad essere elisi in modo differente in ragione della forma invalidante, oppure a rimanere fermi in caso di mera irregolarità”.
22 Cassazione civile Sez. Trib. sentenza n. 31084 del 28 novembre 2019.
23 Cass. Civ., sez. trib., Ord. 20.03.2024, n. 7475, la quale conclude affermando che “… deve escludersi che il giudicato intervenuto tra le stesse parti in relazione al medesimo tributo, e relativo ad un singolo periodo d’imposta, sia idoneo, ex se, a «fare stato», in via generalizzata, per ulteriori periodi, precedenti o successivi, potendo avere un tale effetto solo in relazione a quelle statuizioni che siano relative a qualificazioni giuridiche, o ad altri eventuali elementi preliminari caratterizzati dalla durevolezza nel tempo. L’efficacia di giudicato su di un’annualità estende dunque i suoi effetti anche alle altre nel caso in cui vengano in esame fatti che, per legge, hanno durata pluriennale e sono idonei a produrre effetti lungo un arco temporale che comprende più periodi d’imposta; tali fatti sono allora suscettibili di essere considerati, ai presenti fini, come un unico periodo d’imposta (Cass., 24 maggio 2022, n. 16684)”.
24 I medesimi concetti sono ripresi, da ultimo, da Cass. Civ. sez. trib., Ord. 2.01.2025, n. 13 del 2 gennaio 2025 e da Cass. Civ., sez. trib., sent. 20.01.2025, n. 1302., potendo perciò ritenere che l’orientamento sul punto sia più che consolidato.
25 Da ultimo, Cass. civ. Sez. V, Sent., (data ud. 25/09/2024) 17/12/2024, n. 32980; Id. Sent., (data ud. 24/09/2024) 15/12/2024, n. 32610 e 32611.
26 In tal senso si esprime la Circolare dell’Agenzia delle Entrate 7 novembre 2024, n. 21/E, § 1.2, secondo cui “… in caso di autotutela ad istanza di parte, il contribuente sia tenuto ad indicare puntualmente il tipo di vizio da cui è affetto l’atto e le ragioni in virtù delle quali il predetto vizio sia riconducibile ad una delle fattispecie tassative di cui all’articolo 10-quater”.
27 Così la Circolare n. 21/E, secondo cui “l’errore logico, qualora lo stesso determini una palese infondatezza dell’atto che si traduca nel ritenere indebitamente realizzato il presupposto d’imposta”.
28 Si veda, ad es., A. Viotto, Il nuovo paradigma delle invalidità degli atti dell’amministrazione finanziaria, in Aa. Vv. L’attuazione della riforma tributaria (a cura di M. Logozzo), Pacini Giuridica 2024, pag. 41, il quale pare voglia individuare una nozione di infondatezza partendo da elementi lessicali nella parte in cui sostiene che “l’atto infondato sarebbe quello che, ancorché emesso nel rispetto delle norme che disciplinano l’esercizio del potere impositivo, reca una pretesa che non è tuttavia adeguatamente supportata dal punto di vista probatorio, vuoi perché basata su elementi di prova non utilizzabili, vuoi perché le prove non soddisfano i requisiti richiesti dal comma 5-bis dell’art. 7, D. Lgs. n. 546 del 1992, il quale (non a caso) prevede che «il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni»”.
29 La condivisibile espressione è di G. Fransoni, Motivi di ricorso e ordine delle questioni nel processo tributario, in Diritto e pratica tributaria n. 6/2024, pag. 2082.
30 Cfr. Cass. civ., Sez. trib., 3 dicembre 2021 n. 39660; idem, 28 giugno 2016 n. 13294.
31 Sul tema, particolarmente illuminante nel discostarsi da un approccio non rigidamente dogmatico G. Fransoni, Quel che resta del dichiarativismo, in Rassegna Tributaria, 2022, 543 e ss., secondo cui, partendo dalla constatazione che la funzione amministrativa è connotata da una molteplicità di “bisogni di tutela” (Allorio prima, Tesauro poi), afferma “che dovrebbe ritenersi pacifico che i principi dell’effettività della tutela giurisdizionale e della strumentalità del processo obbligano a ritenere che è il giudizio a doversi adeguare ai bisogni di tutela e non viceversa.
L’oggetto del giudizio e, con esso, il tipo di pronuncia cui mette capo il processo non possono, quindi, che essere ricostruiti a partire dall’esigenza di tutela per la quale è promossa l’azione.
Ed è anche secondo questo punto di vista che il processo tributario non può costruirsi né in modo esclusivamente costitutivo, né in modo esclusivamente dichiarativo”.
32 G. Fransoni, Motivi di ricorso e ordine delle questioni nel processo tributario, in Diritto e pratica tributaria n. 6/2024, pag. 2071-2090.
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