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La Magna Charta, scoprendo i principi nel diritto tributario e oltre. Pensieri per un dibattito e la speranza di un manifesto culturale. di avv. Michele Trovesi, presidente della Camera Tributaria di Bergamo

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La Magna Charta, scoprendo i principi nel diritto tributario e oltre. Pensieri per un dibattito e la speranza di un manifesto culturale. di avv. Michele Trovesi, presidente della Camera Tributaria di Bergamo

di avv. Michele Trovesi, presidente della Camera Tributaria di Bergamo

Il riferimento alla Magna Charta nel nostro logo è impegnativo.

Costringe ognuno di noi a darne una spiegazione sensata. Perché il richiamo a quel documento, che senso ha; non può essere un mero estetismo, un affidarsi a un simbolo secondo la logica del marketing o della pubblicità, come si diceva una volta. La mano destra sul mento e si riflette.

E subito i pensieri si aggrovigliano perché siamo costretti a uscire dai confini del diritto tributario, serve guardare oltre; o meglio, serve pensare alla nostra materia dall’angolo dei principi.

Dunque, la Magna Charta. Qualche libro sul comodino, i ricordi del Liceo e proviamo a costruire un piccolo ragionamento.

Con il regno di Enrico II Plantageneto (1154-1189), nell’Europa che vive le tenebre del Medio Evo, il potere centrale del sovrano si consolida come mai accaduto prima di allora. Lo Stato prende il nome suggestivo di Scacchiere e le funzioni dei governanti locali sui propri feudi, a partire da quelle fiscali, sono drasticamente limitate. Gli sceriffi esercitano il ruolo di esattori e i comandi del re non conoscono limiti: l’imposizione delle tasse è un puro atto di forza che prevede e richiede solo ubbidienza; la sudditanza è assoluta e nella circolazione della ricchezza entro i confini del territorio non si ode la voce di nessuno.

Il malessere dei baroni cresce però di giorno in giorno insieme a quello di vescovi magistrati, cavalieri e cittadini facoltosi, la classe dirigente di allora. Gradualmente il sopruso di essere spogliati, senza ragione, da ciò che si sente intimamente come parte di sé alimenta il desiderio di rottura, di cambiamento.

Di quelle tasse si deve discutere, il re deve spiegare.

Le lotte narrate meravigliosamente da Jacques Le Goff e poi la tregua con una decisione destinata a segnare per sempre la dialettica autorità-libertà: in un documento, la nostra Magna Charta, viene stabilito che nessun tributo sarebbe più stato imposto in assenza di una determinazione comune del consiglio dei baroni.

È una svolta profonda della nostra civiltà. Per tassare serve ascoltare chi è governato.

In altri momenti le tasse hanno segnato la storia dell’umanità: la celebre rivolta dei coloni americani che nel 1765 rifiutarono l’imposizione sui bolli previsti dalla Corona inglese, gettando i germi della futura rivoluzione; la famigerata tassa sul macinato nel giovane Regno di Italia voluta intorno al 1870 da Quintino Sella che provocò violenti tumulti di piazza e altrettante feroci repressioni; la marcia di Gandhi che nel 1935 si ribellava alla tassa sul sale, guidando la sollevazione pacifica delle genti d’India.

Ma la Magna Charta è l’inizio.

Oggi diremmo che è il primo atto nel quale si afferma il principio del consenso alla tassazione. Si sovverte l’ordine tradizionale, un nuovo valore entra nella comunità.

Facciamo un salto di mille anni e ritroviamoci nel nostro tempo. I neologismi si sprecano: modernità, post-modernità o addirittura neo-modernità.

Le categorie, tutte le categorie – anche quelle giuridiche – vacillano; le letture di sistema lasciano posto all’analisi contingente. Ogni interpretazione si veste di fattualità e gli orizzonti si restringono dentro il perimetro dell’immediatezza

Ma non si deve allargare troppo lo sguardo, né probabilmente avremmo le competenze storiche o filosofiche per farlo.

Bene andare a quello che personalmente considero il cuore del problema: il nodo dei rapporti tra società e istituzioni, tra libertà e autorità, forse non è del tutto risolto.

In un periodo storico in cui, almeno in Europa, si assiste al fenomeno prorompente della cessione di sovranità, serve comunque interrogarsi – io credo – sul grado di contrapposizione tra sfera individuale e sfera statale. Paradossalmente lo spostamento del centro decisionale all’esterno dei confini territoriali non ha attenuato, non a sufficienza, la tensione tra le libertà del singolo e le costrizioni autoritative.

E come se quella direzione di cambiamento intrapresa nel 1215 dal re Giovanni d’Inghilterra da poco succeduto a Enrico II non fosse giunta a pieno compimento.

A grandi falcate, i secoli bui del Medioevo, la nascita dello Stato borghese dopo la presa della Bastiglia, l’eclissi degli imperi nell’800 e, infine, le due immani tragedie delle guerre mondiali sono tutte fasi che, a loro modo e per ragioni diverse, hanno mantenuto una polarità dialettica tra interessi pubblici e privati.

La semplificazione è drastica, impossibile non rendersene conto.

Ma, procedendo per grandi schemi, il punto è che il riequilibrio globale dei rapporti tra collettività e individuo deve appunto compiere un altro tratto di strada.

Le grandi Costituzioni del secolo breve sono più Costituzioni dei poteri che Costituzioni delle libertà e le democrazie occidentali non sembrano avere ancora raggiunto una forma compiuta. Il cardine della convivenza non è la persona ma, in maniera talvolta autoreferenziale, lo Stato-persona che diventa ineludibilmente lo Stato-apparato. Nonostante l’evoluzione giuridico-istituzionale che attraversa l’Europa e che, lo abbiamo detto prima, sposta fuori da confini nazionali il luogo di molte decisioni, lo Stato sembra ripiegare su sé stesso; nei pochi ambiti rimasti di sua esclusiva competenza, il rapporto con l’individuo viene anacronisticamente irrigidito, rivendicando un ruolo di forza.

Lo dico senza mezzi termini.

La mia idea è che la sovranità statale continui a esercitare una eccessiva supremazia proprio in ambito tributario, qui più che altrove lasciando a metà i grandi valori della liberaldemocrazia. I valori ci sono e vengono scritti in molti testi dalla forma sacrale ma all’atto pratico, vengono intesi come richiami dal significato simbolico e nulla più. Orpelli intrisi di buone intenzioni ma incapaci mutare il codice genetico dell’azione amministrativa.

L’architrave rimane l’interesse fiscale e nessuno più del nostro Paese lo vive quotidianamente. Basti pensare a come è stato svilito l’obbligo di motivazione del provvedimento nell’ultimo ventennio, a quanto battaglie si devono sostenere tutti i giorni per rivendicare un elementare diritto quale il contraddittorio preventivo; o ancora, alla responsabilità civilistica dell’amministrazione finanziaria per la quale l’art. 2043 c.c. non trova quasi mai applicazione per ragioni di ogni genere tranne che giuridiche.    

Lo affermo sempre a chiare lettere perché è importante: la congenita debolezza del pensiero liberale dentro l’Italia ha reso la nostra situazione più grave di quella di altri. Hobbes, Locke, Kant, Mill e numerosi autori dopo di loro sono rimasti essenzialmente estranei alla nostra tradizione culturale e credo sia per questo che le autorità pubbliche tendono a salvaguardare il gettito erariale a preferenza di altri interessi che la società esprime.

Ecco perché la Magna Charta, riannodando il filo dei miei pensieri.  

A mio modo di vedere occorre disgregare il Logos sedimentato nella nostra coscienza collettiva.

Segni, sintassi ed enunciati vanno cambiati in profondità generando un diverso patrimonio di conoscenze. Un momento di Chaos e la costruzione di nuove legature, prendendo a prestito l’espressione di un prestigioso docente di diritto tributario come Pietro Boria che pure legge la realtà in maniera diametralmente contraria alla mia. Le forme dell’aggregazione sociale vanno ricostituite ponendo al centro l’individuo, ovunque ma prima di tutto all’interno dei meccanismi di tassazione.

Una prospettiva di rivoluzione costituzionale, disegnando un sistema impositivo che realmente parta dal contribuente e che ne riconosca in ogni momento la pienezza dei diritti soggettivi. Spero di non scivolare nell’enfasi o nella vuota retorica, dicendo che si avverte più che mai il bisogno di un nuovo approccio al tema del rapporto tra Fisco e libertà, dando maggiore spazio alle tutele del singolo.

Torno da dove ho preso le mosse: serve scoprire o riscoprire i principi fondativi della nostra materia, lungo un diverso asse cartesiano nella relazione tra soggetto pubblico e soggetto privato. Perché il diritto tributario non è ambito di studi da affidare ai tecnicismi contabili o ai riquadri del Modello Unico. Il diritto tributario non è composto da regole simili a quelle delle scienze esatte nemmeno quando si discute della scissione mediante scorporo, del realizzo controllato, del patent box o della disciplina anti-ibridi. Il diritto tributario ha a che vedere con i fondamenti della libertà individuale, con i fondamenti di un ordinamento costituzionale: per cambiarne in profondità regole o procedure occorre cambiarne i paradigmi, ritrovandone una nuova finalità nel grembo della società.

Come è accaduto nel 1215 e come potrebbe accadere nell’epoca attuale, segnata da un nuovo arcipelago politico e normativo che fa perno sulle istituzioni sovranazionali.    

Mi congedo con un invito rivolto a tutti i componenti della nostra Associazione perché sgretolino queste mie riflessioni, dandomi modo di capire dove sbaglio; e perché indichino un diverso quadrante giuridico e intellettuale, leggendo la realtà da una prospettiva antitetica. Se poi sarà possibile gettare un ponte tra i diversi approdi oppure ci si scoprirà gli uni molto vicini agli altri, potremo pensare a un manifesto culturale. Sommessamente a una nostra piccola Charta.

28 ott 2023

One Comment

    July 22, 2024 REPLY

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